martedì 22 maggio 2007

"Piccadilly" CIRCUS


Immagine tratta dall'Album Il circo di Darix Togni.

L’aria è bianca e piena di polvere. Il sole dell’ora meridiana ti acceca se non hai gli occhiali scuri.
Alle due di pomeriggio in piena estate nella provincia di Agrigento la vita si prende una lunga pausa prima di risvegliarsi nella semioscrurità della notte.

Nel niente e nella sabbia, si intravede muoversi per l’effetto della calura, il tendone circolare a strisce bianco e rosso.

CIRCUS

Lo spettacolo pomeridiano si deve tenere per forza la domenica e molte famiglie approfittano dello sconto e rinunciano a dormire. Quindi, vestiti a festa, coi pargoli lieti e le nonne al seguito, a gruppi seguono l’Uomo di Casa verso il circo.

Entra il presentatore-padrone. Bianco d’età, vestito come un damerino dell’ottocento con la tuba in testa e il frustino dei cavalli, introduce i suoi artisti alla maniera araba!!!
“Buon pomeriggio Signore e Signori benvenuti al più grande spettacolo. Tigri, leoni, cavalli ed elefanti, uomini e donne volanti, la donna cannone e i giocolieri….”
E per la gioia dei piccoli… i Pagliacci!
Per primi entrano i cavalli. Sollevano la polvere beige nella loro inutile corsa. Pensano che sarebbero stati meglio addirittura sotto i quranta gradi e il sole a picco, piuttosto che fare per due volte al giorno la figura dei coglioni a due a due e per giunta con le penne sulla testa. L’unica buona è la femmina quasi nuda che salta sulla groppa. Ogni volta che cade è un …piacere….
Poi elefanti e deodoranti e una tigre vecchia e piena di droga che non mangerebbe una bistecca, figurati un uomo vivo. Per poi sputarne anche i vestiti.
I bambini sulle ginocchia dei genitori non stanno fermi un attimo. Non importa che sudano, loro in questa domenica vedono che le favole alla fine, sono vere.
Esistono veramente gli animali fantastici delle giungle e delle savane e quello con la tuta e la frusta lunga lunga, sarà un parente di Sandokan? E poi come faranno a mandarsi i cerchi e i birilli e prenderli tutti?
Trombe e tamburi ritmici e i piatti delle bande dei paesi. Entrano i pagliacci.


Gli Angeli Volanti avranno trent’anni per uno. A stento finite le medie. Fidanzati da piccoli e prossimi al matrimonio, quando lui si deciderà…..
Salutano il pubblico e si appoggiano al loro ascensore. I bambini si chiedono come fanno a sollevarsi in cielo solo tenendo le mani su quella fune. Se lo domandano sempre, anche nello spettacolo pomeridiano.
Salgono lì e nessuno li sente. Tutti li vedono ma gli Angeli Volanti possono anche urlare.
E’ il loro posto più intimo.
Sono anni che fanno questo. Perfetti come una espressione algebrica con una unica soluzione.
Precisi come matematica o come il tempo esatto del minuto, sul quadrante dell’orologio.
Né un secondo più né uno meno.
Lui si appende a testa in giù lei gli affida i suoi trent’anni. Tutti i giorni. La domenica due volte.
Avete mai conosciuto un amore più grande?
Più perfetto o più bello?
E in quell’assoluto che conosce solo la verità, nell’intimità dei mille occhi su di loro lui le parla d’amore. Lo fa per amore e per rassicurarla. Sempre con lo stesso trasporto da anni senza sbagliare mai. La loro vita dipende dalla fiducia di lei e la sua fiducia dipende dalle parole e dalla passione di lui che non deve cedere mai.
Le racconta di fiammiferi che si accendono quando viene l’amore e poi tutti insieme una volta sola nella vita, quando per la prima volta la vedi e sai, lo sai! Che non te la scorderai mai più.
E quando si accendono tutti insieme tu hai l’immagine del punto esatto dove ti trovi nella tua vita.
Le parla dei polmoni quando soffi le parole d’amore e l’aria dentro diventa come la primavera nel mio giardino.
E dei seni riempiti di vita per il solo sguardo dell’uomo che passa.
ADESSO! !
E lei salta, le sue mani l’afferrano il pubblico applaude e i bambini succhiano il lecca lecca muovendosi frenetici sulle gambe di nonna (ci è andata apposta).
Salta come una geometria, un miracolo, la prova che Dio esiste e che il diavolo è, in fondo un incapace.
Lui le racconta del sole e la luna che si rincorrono da anni, lui insegue e lei scappa. Non fanno l’amore mai. Ma lui le corre dietro proprio perché quella non ci sta.
A volte è arrabbiato altre lei piccola, a volte bellissima. Ma non sempre.
Come le donne che possono far fermare la vita di un albero centenario solo toccandolo, lei può far salire il mare….
Poi il sole la prende, la luna. Succede una volta ogni mille anni. La terra diventa nera e gli umani rimangono tutti col naso per aria, fermi nel loro isterico movimento.
E guardano. E non capiscono. Non capiscono che nel loro letto succede esattamente questo, ogni tanto.
ADESSO! !
E lei salta. La sua scommessa-vita è vinta anche stavolta e il pubblico, sudato è in delirio.

E’ molto galante l’Angelo, non passa mai prima per una porta e al ristorante entra a vedere se l’ambiente è buono per lei. Un signore con la terza media.
Quindi quando decide di chiederla in moglie lo fa nel suo modo, da gentleman.
E lo fa nel posto più intimo al mondo. Sul trapezio, trafitto da mille sguardi di umani che gli danno coraggio, come una posizione scomoda, come gli spilli al sedere, o il peperoncino.
Ci mette l’anima e le dice parole bellissime tra un salto e un
ADESSO! !|
“Se tu volessi accettare la mia candidatura, io sarei il tuo accompagnatore e compagno, marito fedele e amante generoso e fantasioso e da anziano ti dedicherei, volentieri, tutti i restanti giorni della mia vi

La frase come la vita si spezza all’improvviso, a metà.
La tensione stavolta era troppa.
Temposbagliato.
Questa volta Dio era distratto.
Tempofinito.

CIRCUS

Ma se torniamo indietro nel tempo e la vediamo da un altro punto di vista

Hanno superato da un bel po’ la cinquantina e sono uomini normali nella loro vita borghese.
Uno alto e rotondetto, l’altro magro e basso e con pochissimi capelli a chierica. L’esatto contrario di Stanlio ed Ollio. Come lavoro fanno i pagliacci e col calore secco e feroce di quel pomeriggio siciliano preferiscono rimanere nell’ombra del telone a vedere quello che già sanno a memoria piuttosto che nel sudario che è il loro letto, sotto le lamiere del carrozzone.
Finito il loro spettacolo si trattengono ancora vestiti e guardano leoni e tigri, domatori e Donna Cannone, Angeli Volanti e giocolieri.
Sono vestiti come dei pagliacci, con le scarpe a sfilatino e la giacca che si alza dietro, con le lacrime finte e il cerone che si scioglie per il caldo e col sorriso rosso pittato sulle loro bocche brutte di barba mal fatta, di denti (pochi) gialli e di alito cattivo.

Osservano stanchi lo spettacolo scambiando qualche parola di tanto in tanto.
Poi rimangono perplessi al numero degli Angeli volanti. Non è come il solito.
Non si capisce cosa ma sta accadendo qualcosa di importante là su. Qualcosa di nuovo.

Il tempo di aprire e chiudere gli occhi.
Questo è il tempo che gli occorre per vedere che loro per aria non ci sono più.
Il tempo per capire che quello che doveva succedere, prima o poi, è successo.
E tu pensavi che mai….

“Sul sangue buttarono rena. Ed entraron di corsa i pagliacci!” *

Ridere, far ridere, ridere, ridere ridere. Ridere della morte, della paura.
Dello sgomento.
Lo sgomento silenzioso e assurdo che ha avvolto in un colore incolore tutto il circo. Pubblico, presentatore-padrone, bella in tutù, donna cannone e cavalli compresi. Tutti con gli occhi sugli Angeli ex-Volanti. Adesso tutti sui pagliacci.
Fanno tutto il numero velocissimo. Sembra il contrario della moviola o quegli effetti comici dei film, solo che non riescono a far ridere.
La velocità è data dall’affanno, dall’apnea del pianto che si è sciolto nel momento sbagliato. Dalla tosse umida di qualcosa di umido che esce dai polmoni ma che non è più pianto ma è il bel mare di Agrigento. Salato.
Fiumi e sudore freddo corrono per il cerone e il bianco e il rosso e creano delle maschere, finalmente buffe. Grottesche.
Ma il pubblico ride.
Forse pensa che quello di prima era un effetto spettacolare e il corto e il chiatto ristabiliscono finalmente il buonumore del

CIRCUS

L’applauso è fortissimo, libera! E’ finita. E’ scordata.

Il pomeriggio di un giorno come gli altri, la carovana si muove. Carri di lamiere e legno trainati dagli stessi cavalli che adesso non hanno le piume ma il pesante giogo delle case ambulati.
Partono le “villette” verdi con le tendine allegre alle finestre, le carrozze degli animali e quelle della tenda e degli attrezzi.
Vanno verso un’altra provincia agrigentina, lontana dal mare.
Qualche bambino coi calzoni corti, la fionda e le calze abbassate rimane seduto sul cumulo di carte, ruote di legno e pezzi di ferro arrugginito. Mangia il gelato al limone guarda lo spettacolo del circo che va via.
Domani si monta, dopodomani si prova e poi via. Uno spettacolo al giorno, due domenicali perché c’è la pomeridiana per le famiglie povere.

A cassetta della loro strana dimora, due uomini che hanno passato la cinquantina, non hanno nessuna voglia di ridere e nemmeno di parlare.
Guidano i cavalli che già sanno dove devono andare e che in fondo sono più contenti di questa loro occupazione.
Guardano avanti e forse, pensano alla loro vita. Quindi hanno paura di guardare avanti e si volgono verso dietro.
Questo il pubblico non lo deve sapere.
Ridano gli altri perché Ridere li facciamo noi.
Ridano pure di noi. Ridano adesso per noi.



Col. Douglas Mortimer
Vinicio.

domenica 13 maggio 2007

IL GORGO

IL GORGO.


Nostro padre si decise per il gorgo e, in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io lo capii che avevo nove anni ed ero l'ultimo.
In quel tempo stavamo ancora tutti insieme, salvo Eugenio che era via a far la guerra di Abissinia, quando nostra sorella, penultima si ammala. Mandammo per il medico di Niella e alla seconda visita disse che non ne capiva niente, chiamammo il mendico di Morazznao e anche lui non ne conosceva il male, venne quello di Faesoglio e tutt'e tre dissero che la malattia era al di sopra della loro scienza.
Deperivamo anche noi accanto a lei e la sua febbre ci scaldava come un bracere quando ci chianvamo su di lei per cercar di capire a che punto era.
Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il Signore che ce la portasse via, ma lei durava, solo più grossa un dito e lamentandosi sempre come un agnello.
Come se non bastasse, si aggiunse il batticuore per Eugenio del quale non ricevevamo più posta.
Tutte le mattine, correvo in canonica a farmi dire dal parroco che cosa c'era sulla prima pagina del giornale e tornavo a casa a raccontare che erano in corso coi Mori le più grandi battaglie.
Cominciammo a recitare il Rosario anche per lui, tutte le sere con la testa tra le mani.

Uno di quei giorni, nostro padre, si leva da tavola e dice con la sua voce ordinaria: scendo fino al Belbo a voltare quelle fascine che m'hanno preso la pioggia.
Non so come, ma io capii a volo, che andava a finirsi nell'acqua.
Mi atterrì, guardando in giro, vedere che nessun altro aveva avuto la mia ispirazione, nemmeno nostra madre fece il più piccolo gesto, seguitò a pulire il paiolo, e sì che conosceva il suo uomo, come se fosse il primo dei suoi figli. Eppure non diedi l'allarme, come se sapessi che lo avrei salvato solo se facessi tutto da me.

Gli uscii che, lui, pigliato il forcone cominciava a scendere dall'aia.
Mi misi per il suo sentiero ma mi staccava al solo camminare e così dovetti buttarmi ad una mezza corsa.
Mi sentì, mi riconobbe dal peso del passo, ma non si voltò e mi disse di tornarmene a casa con una voce rauca ma di scarso comando.
Non gli ubbidii.
Allora, venti passi più sotto, mi ripetè di tornrmene su, ma stavolta con la voce che metteva coi miei fratelli più grandi quando si azzardavano a contraddirlo in qualcosa. Mi spaventò ma non mi fermai.
Lui si lascò raggingere e, quando mi sentì al suo fianco, con una mano mi fece girare come una trottola e poi mi sparò un calcio dietro che mi sbattè tre passi su.
Mi rialzai e di nuovo dietro.
Ma adesso ero più sicurto che ce l'avrei fatta ad impedirlgielo.
Mi venne da urlare verso casa ma ne eravamo già troppo lontani. Avessi visto un uomo lì intorno, mi sarei lasciato andare a pregarlo: "Voi, per carità, parlate a mio padre, ditegli qualcosa", ma non vedevo una testa d'uomo in tutta la conca.
Eravamo quasi in piano dove si sentiva già chiara, l'acqua di Belbo correre tra le canne.
A questo punto lui si voltò, si scese il forcone dalla spalla e cominciò a mostrarmelo, come si fa con le bestie feroci.
Non posso dire che faccia avesse, perchè guardavo solo i denti del forcone che mi ballavano a tre dita dal petto e, soprattutto perchè non mi sentivo di alzargli gli occhi in faccia, per la vergogna di vederlo come nudo.

Ma arrivammo insieme alle nostre fascine. Il gorgo era lì, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle di un serpente.
Mio padre, la sua testa era protesa, i suoi occhi puntati al gorgo,e allora allargai il petto per urlare. in quell'attimo lui ficcò il forcone dentro nella prima fascina.
Le voltò tutte, ma con una lentezza infinta, come se sognasse.

E quando le ebbe voltate tutte, tirò un sospiro tale che si allungò di un palmo, poi si girò. Stavolta lo guardai, e gli vidi la faccia che aveva tutte le volte che rincasava da in festa, con una sbronza fina.

Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio, per non perdermi di un passo.
E mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone e ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica,
Tra i due nervi che abbiamo dietro al collo.


B. Fenoglio.

mercoledì 9 maggio 2007

si comunica (o più che altro scomunica) alla signorina vostra
che l'isola ha ripreso ha funzionare per la predicazione della
religione della sconvolgenza.
per info cliccami