lunedì 3 settembre 2007

SOGNO O SON DESTO?


Sudo. Tra lenzuola infuocate. Le persiane mollemente sbattono contro le finestre. Dalla cucina arrivano sinistri rumori di vetri scossi. Potrebbero rompersi sotto i colpi del vento o potrebbero essere ladri che provano a violare la mia intimità, ma io da questo letto non riesco ad alzarmi. Sono in quel dormiveglia in cui le visioni oniriche si confondono con la consapevolezza di essere svegli e con la voglia di ricatapultarsi nel sogno. Come calamite, i quadri onirici mi attraggono irresistibilmente. Come ubriaco, mi abbandono ad essi. Sto sognando di un’estate passata; di un’estate lontanissima, secondo le coordinate, non del tutto ortogonali, del mio sistema di riferimento spazio-temporale.


Era un agosto statico, dal cielo terso e col sottofondo di cicale. Era il solito agosto annoiato da far passare in fretta. Decidemmo di scuoterci dalla sospensione dell’anima e partimmo per Firenze con i compagni del circolo “Che Guevara”. Per noi quella città simboleggiava un punto cardinale. Rappresentava una realtà così diversa dalla nostra, quella di un piccolo centro del profondo Sud. Profondo non tanto per latitudine, ma per vitalità intellettuale e opportunità per noi giovani. Partimmo con i nostri zaini semivuoti. Alla ricerca di qualche speranza. E anche di un po’ di divertimento. Il viaggio in treno non lo ricordo, forse volammo. Talmente ci battevano i cuori. Le nostre pupille erano quasi fuoriuscite dalle orbite. Forse per correre in avanti a esplorare il nuovo mondo che ci aspettava. Ricordo l’arrivo in Santa Maria Novella. Ci attendevano Lapo e Margherita, i compagni empolesi che avevamo conosciuto al congresso nazionale qualche mese prima. Ci spiegarono subito dov’era la scuola in cui ci saremmo accampati. Non era lontana dalla stazione e ci si arrivava a piedi. Io a Firenze non ero mai stato e così ogni angolo mi sembrava un pezzo di museo. Ci infilammo in una stradina. Lapo ci spiegò che l’entrata principale della scuola, l’istituto tecnico commerciale Fibonacci, era su via de’ Martelli, una delle strade principali del centro, ma noi avremmo dovuto usare l’entrata “alternativa” ricavata sul retro appositamente per l’occasione. Ovviamente, non saremmo stati i soli a occupare l’edificio. C’erano ragazzi da tutta l’Italia e anche alcuni compagni stranieri.


Ora mi viene il dubbio che non sto più sognando. Sapete, è quella strana sensazione che si ha la mattina appena svegli quando si cerca di ricordare un sogno o meglio di ritornare a un sogno che si è appena fatto. Non sono ancora completamente sveglio. Non sono ancora uscito del tutto dal sogno. E ci posso rientrare quando voglio. Ma questo sogno mi sembra sempre più contaminato dai ricordi. E’, forse, una strana categoria di sogno autobiografico. Affondando la testa nel cuscino cerco di viaggiare indietro nei meandri della mente.

Salutiamo Lapo e Margherita e ci sistemiamo nella nostra stanza. O meglio nella nostra classe: la 4^ B. C’era odore di gesso e d’inchiostro secco. Dovevamo evitare di aprire le finestre, così spalancammo le porte e le vetrate che portavano al cortile interno. Perlustrammo la scuola come se fosse stata una miniera di diamanti. Bussammo a tutte le porte chiuse ed entrammo in tutte le aule aperte per conoscere gli altri compagni-coinquilini. Stringemmo amicizia, in particolare, con alcuni ragazzi di Reggio-Emilia. Fieri e portatori di storie lontane. Erano quasi tutti figli o nipoti di partigiani. E lo portavano scritto negli occhi. La notte, ascoltavamo ammirati le loro storie. E ci sembrava di essere nudi. Chi eravamo noi? Per cosa avevamo lottato? Per cosa avevano lottato i nostri genitori? Cosa ci facevamo lì? Il vino rosso e le canne allontanavano ogni domanda. Ogni tanto spuntava un gruppetto di secchioni con le poesie di Majakovskij o Neruda. O qualcuno non sazio dei comizi serali che aveva voglia di discutere. Di solito erano ragazzi delle mozioni di minoranza in cerca di consensi, che sistematicamente venivano zittiti o ignorati. Alla cultura e al dibattito politico erano già dedicati il pomeriggio e la sera. Dopo ci volevamo dedicare soltanto alle musiche, ai balli e agli … sballi! La Festa era organizzata veramente alla grande! Ricordo che le prime volte mi perdevo tra stand e palchi e cercavo riferimenti per orientarmi. Ero entusiasticamente disorientato. Era quella la vita che avrei voluto vivere ogni giorno. Era quella l’atmosfera in cui avrei voluto far respirare la mia anima. Lì sentivo concretizzarsi parole come condivisione, appartenenza, speranza. Il comizio più bello fu quello del segretario nazionale. C’era una folla immensa. Sembravamo un corpo unico con una voce sola. Un corpo con centinaia di teste e di piedi. Ci avvolgevamo nelle nostre bandiere e mostravamo vigorosi i nostri pugni chiusi quasi a voler sorreggere il vento delle nostre idee. Il segretario chiuse il comizio dicendo “compagni, se c’è un’alternativa a questa società la dobbiamo volere. Se c’è una alternativa a questa società siamo noi!”. In quel momento il ritmo cardiaco collettivo schizzò in aria e un sangue di urla e applausi approvò le parole del capo. Mi sentivo vivo. E parte di un qualcosa che mi apriva gli orizzonti. Mi faceva sognare paradisi in terra e l’abolizione del Vaticano. Tanto non ce ne sarebbe stato più bisogno. Ero un sacerdote - operaio di una religione da costruire. Insieme ai miei compagni. Giorno per giorno. Vittoria per vittoria.


La mattina ormai alta cerca di prendere il sopravvento. Ma non avrà la meglio ancora per un po’. La luce minaccia di far svanire la mia concentrazione. Ma resisto nel mio sogno. Voglio che continui. Vorrei poterci entrare come in un videogioco e controllare ogni scena, ogni azione. Vorrei poter modificare il corso degli eventi, come se si trattasse della realtà.

L’estrazione dei salami di Montespertoli era una delle attrazioni della Festa. I due ragazzi che gestivano lo stand erano simpaticissimi e molto abili nell’attirare l’attenzione del pubblico. Adescavano la folla con battutine nel loro genuino accento toscano di campagna. Abbondavano i doppi sensi, ma anche l’esaltazione delle virtù dei prodotti della terra. “Signore, venite a comprare il biglietto per l’estrazione dei salami di Montespertoli. Solo mille lire per un biglietto. Primo premio: tre salami di codeste dimensioni. Che i vostri mariti un ce l’hanno mica di siffatte lunghezze! Secondo premio: un salame e una bottiglia di Chianti, di quello bono. Terzo premio: un salamino. Venite signore, e anche voi signori. Vengano. Vengano. A mezzanotte l’estrazione dei biglietti fortunati. Avvicinatevi al nostro stand. Qui trovate i migliori prodotti della Toscana: Pecorino di Pienza, Lardo di Colonnata, Chianti del senese, e il mitico salame di Montespertoli. E poi ci sono gli assaggini a ufo!” A ufo, mi spiegarono voleva dire gratis. Era una delle tante espressioni colorite che condivano quelle serate. Adoravo i toscani, con quelle consonanti aspirate, quel sarcasmo ostentato. E mi piaceva la loro capacità organizzativa. Ogni sera c’era un concerto seguitissimo. Di solito si trattava di gruppi di compagni che suonavano gratuitamente. Nei fine settimana, invece, si esibivano gruppi più importanti. Fu una grande emozione quando toccò a noi. Eravamo saliti a Firenze senza gli strumenti e senza nemmeno immaginare che avremmo suonato. Ma i compagni ce lo proposero e noi cogliemmo l’occasione al volo. Il sangue mi si scioglieva al ritmo di “Corazza di pelle” e “Take life easy”. La musica mi rimbombava nello stomaco. Mi sentivo un tutt’uno col vento. Non avevo nessuno intorno e volavo libero sopra fiumi di persone e nuvole psichedeliche. Tremava la terra e ci trasmetteva una carica anarchica. Avrei mandato a fanculo anche il mare. La bacchetta era il prolungamento della mia mano. Ogni colpo che assestavo sul charleston mi sembrava una frustata che davo alla Terra per scuoterla. Avevo la sensazione di poter prendere il Mondo tra le mani e mettermici a giocare come fosse un pallone. Lo potevo far rimbalzare con un colpo inferto alla grancassa. Lo potevo far salire al cielo con una sferragliata di percosse. La batteria diventava la macchina del tempo. Lo potevo fermare. Quando suonavo nient’altro accadeva nell’Universo. Se non quei suoni. Che s’intersecavano a quelli degli altri strumenti in una composizione aerea che riuscivo a visualizzare. Era un mosaico impazzito e dinamico.


Mi sto agitando troppo nel letto. Sto quasi uscendo irrimediabilmente dal mio sogno. Ma con un ultimo sforzo resisto per rivedere lei.

Eccola che mi riappare proprio come mi si presentò quella sera. Sapevo che si nascondeva qui da qualche parte. Era una morettina delicata e forte allo stesso tempo. Aveva degli occhioni di un verde che era un miscuglio di prati inglesi e di mari caraibici. I capelli le accarezzavano appena le spalle. Il suo sorriso accendeva il sole, rischiarando anche la giornata più nera. La sua voce era armonia. Le sue mani erano pennelli. La sua pelle era candida come il latte e si arrossiva a ogni contatto. Mi capitò davanti come fa un’emozione, che ti penetra come un aculeo. E la scossa fu la stessa. Come se stessi accarezzando un lampo a mani nude e un incendio mi percorresse la schiena. Ballammo tutta la notte. Salsa, merengue, baciata. Sudati.


Sudato. Sono zuppo. Mia moglie mi chiama. Apre le finestre. Mi riporta sulla Terra. Nella mia stanza, nella mia vita. “Ugo svegliati! Devi andare a prendere Mario alla stazione, ricordi? Ugo? Ugo?”. Mi sveglio contento. Magari continuerò il sogno in macchina. Poiché la vita è troppo breve perché si sogni solo di notte.
Br1