lunedì 26 novembre 2007

EBANO




ebano

Liberamente tratto da Un anno senza Janet di Luca Musella, Ed. Nonsoloparole

Inserto tratto da Gomorra di Roberto Saviano Ed. Mondatori
Inserti tratti da Il Mattino di Napoli Cronaca - Taccuino
Inserto finale tratto da Medicina Democratica Sanità Storia di Genet
Immagini Archivio del Film Muto



TRACCIA 1 6.30min in ingresso



Il tempo è incerto questa sera a via Ghisleri. Forse piove.
Il gruppo accorda gli strumenti. Suonano musica popolare.
Chitarra battente, chitarra arpeggiante, la fisarmonica, la tromba, diverse tammorre la voce femminile, il leader del gruppo. Ai piedi del palco, i bottari, facce di quartiere.
Il cielo scurisce ma continua ad arrivare gente e tra poco inizierà lo spettacolo.
Il palco è illuminato dalla solita filiera di fari colorati e da cornice fanno tre palazzoni grigi con molte verande e antenne paraboliche. Nello spiazzo, macchine parcheggiate, alcune bruciate. Motorini sparsi, tutti fiammeggianti e metallizzati.

TRACCIA 2 inizio sottotono, da sfondo alla lettura
All’interno del palazzo da sfondo. Terzo piano, un pianerottolo qualunque, un alloggio come gli altri. Tre camere semivuote. Quelli della paranza stanno ancora avanti allo schermo; fumano, annusano, bevono. Oggi è il giorno e devono “trovare il coraggio”.
Poi cominciano a vestirsi. Pantaloni di pelle o jeans, magliette, giubottoni neri per nascondere il ferro, scarpe da ginnastica, caschi integrali.
E’ il loro lavoro.


La gente arriva, si comincia con una Tarantella del Gargano, poi subito la Tammurriata Nera, per scaldare gli animi. Le ragazze scendono tra il pubblico e non hanno difficoltà a trovare qualche partner che insegua i loro passi nelle danze popolari.
Il brano inizia lento, un lamento, chitarra arpeggiante e voce, poi sale e entrano gli strumenti. La chitarra battente e timidamente i tamburi, poi la fisarmonica. Cresce e le ragazze aumentano la velocità dei giri, poi ancora.


L’obiettivo è ancora dietro al banco. Negozio TIM. Il padrone è diventato suo socio.
Sposi da quattro mesi. Otto ore al negozio, poi in un call center, ma alla fine un premio, il ritorno a casa. Il Paradiso, la Fortuna nell’inferno del “Rione Terzo Mondo”, 70 metri quadrati di delicatissima e dolce felicità, per poche ore è vero, ma tanto basta. Solo qualche parente stretto o amico che non sarà invidioso può entrare nel regno.
E un giorno arriverà il regalo che attendono da sempre il loro Angelo.
Questa sera aspetta solo di chiudere. A casa ci sono i ragazzi con cui è cresciuto, anche loro con le famiglie.
Ceneranno insieme, poi qualcuno aprirà una bottiglia di spumante. I bambini faranno rumore e, se si affacceranno alla veranda potranno vedere il concerto.


Polizia da tutte le parti.
Il ritmo cresce e adesso suonano tutti gli strumenti in orchestra. Alla voce femminile fa da controcanto il coro, quando tacciono è il tempo della tromba. La gente smania. Il ritmo è un’onda che sale su dai piedi.
STOP: silenzio.
Si ferma all’improvviso. Quelli più avanti possono capire, gli altri no.
Il direttore dei bottari si allontana, il coro lo guarda fisso. Pronti.
Silenzio. Tempo sospeso.
Temporale in arrivo.
Il ragazzo allarga le braccia e fissa i suoi percussionisti che lo guardano di rimando.
Salta. Cade, sbatte le braccia, e riprende la musica al ritmo delle botti e delle tianelle.
Adesso è fortissimo, con la potenza e la velocità dei bassi… le botti donano alla tamurriata una gravità, la pesantezza e il senso del dramma.
I ragazzi percuotono folli, in trance; prima con il destro poi col sinistro, il direttore li incita mimando il gesto di chi non sente bene.
Si riprende l’armonia degli strumenti, tutti.


Escono. Sono quattro. Hanno due enormi scooter, di quelli che se li vedi ti scansi perché fanno paura. Neri e cromati. I due dietro sono armati. Partono velocissimi, investendo la gente sotto il palco.
Polizia dappertutto. Le botti suonano ancora più forte, per coprire il rumore di quelle moto o perché qualcuno ha capito e rende col suono il senso del dramma che si racconta sul palco e che si consumerà -come al solito anche oggi-; periferia di Napoli.
“Figli di zoccola….” Poi abbassa lo sguardo sulla botte grande e riprende a percuotere ma con più violenza, con rabbia.

Tre quattro colpi, l’ interruzione di frazioni di minuto poi di nuovo, altri tre quattro colpi e poi via. E’ pesantissimo, veloce, tremendo e affascinante e tutto allo stesso momento e adesso non puoi proprio stare fermo. Le ballerine danzano veloci, la voce racconta la solita storia della ragazza che seduce il ‘mmericano E lievt a pisotl down, lievt a pistol down che mò vene a Big Mama, lievt a psitol down.
Il gruppo segue il coro e il coro segue il ragazzo magro e attentissimo che ha in mano la musica.
Salta, vibra teso come una sartia nel mare in tempesta, smania, poi un salto a piedi uniti apre le mani, salta di nuovo, cade, STOP.
Finisce tutto. Silenzio Stop. E’ finito il brano.
Applausi, fischi, bottiglie che volano, vetri rotti sull’asfalto. Il pubblico approva.


L’obiettivo è al banco occupato nelle ultime cose. I numeri da ricaricare, il registratore da chiudere, i registri da compilare, poi spegnere computer e luci, chiudere bene e prima telefonare a Lei per sapere il gusto del gelato che dovrà comprare poi portare a casa.

Buio e silenzio in strada.
Il gruppo è fermo, le luci sono basse. Aspetta.
Poi una ragazza comincia a girare come posseduta da un Demone. E’ una villanella, è stata morsa dal ragno, ha il veleno più seducente e femminile nel sangue.
E’ vestita di nero con una lunga gonna aperta. La musica la trasforma, rende affilato il corpo, tonde le anche aperti e liberi i seni. I capelli le scivolano sulla fronte, in bocca, poi tornano dietro. E tutto è in penombra, lentissimo, quieto.
Il leader, anziano e famoso, si avvicina, come medico e scruta la ragazza, che intanto è caduta, la studia e la incita con la tammorra a sonagliera, lei smania da terra. Quelli dietro, come al solito non vedono niente.
Arrivano i motorscooter silenziosi come ombre, agili e veloci “planano”, aspettano alla guida col motore acceso, si guardano attorno, i due dietro camminano senza produrre rumore, entrano nel locale; negozio TIM.


Sale il ritmo mentre la ragazza inizia a contorcersi. E’ avvelenata e deve fare uscire le tossine attraverso il sudore. I contadini suoi vicini sono accorsi alla casa della tarantolata e suonano, suonano, suonano anche per tutta la notte per far ballare la ragazza. Lei si dimena come in preda al Diavolo, e mostra così le sue bellezze ai paesani. Non potrebbe in uno stato di normalità, ma in fondo questo è un messaggio da giovane alla carne giovane: “Chi entrerà nelle mie grazie entrerà nel mio corpo segreto”.
La tarantolata, ha licenza di fare cose che altre non fanno.

La ragazza si alza ha uno scialle rosso e attrae a sé il musicista.
La musica sale, entrano gli strumenti; la chitarra battente al massimo, le percussioni, le voci che raccontano in un dialetto arcaico con vaghe mescolanze mediorentali…
Il capocoro è attentissimo e pronto, i bottari guardano il direttore che guarda i bottari.
Quindi salta ed entrano le percussioni.


L’obiettivo non ha neanche il tempo di dire che è chiuso che vede un lampo e sente, con stupore più che con rabbia o dolore, un corpo estraneo entrare veloce nel petto.
La rabbia arriva alla seconda esplosione. Lampo, luce, pugno pungente che trapassa il petto e un urlo furioso, acutissimo. Poi la mossa di avventarsi contro quelli sciacalli, ma ritorna lo stupore quando sente che il corpo non risponde.
Poi è tutta la solitudine e tutta l’angoscia che mai aveva provato quando ritira dal petto la mano inzuppata del suo sangue. Allora alza lo sguardo che adesso è incredulo, chiede a loro spiegazione, aiuto.
Riceve altri colpi di pistola.
Cade supino. Il cuore batte acuto e punge come le tianelle dei bottari, poi profondo e cupo come la botte grande. Irregolare. Quattro colpi, pausa, ancora qualche colpo che scuote il suo corpo, la terra, gli animali e la natura delle cose, tutti i Santi e le Madonne, questo Dio che deve pur vedere che sta accadendo…

Quattro colpi rabbiosi e violenti una pausa, seguendo i gesti del direttore del coro e riprende.
Quattro colpi forti una lunga pausa dove è tutto nero, poi gli occhi riescono ancora a vedere la chiavetta che dondola appesa alla chiavetta della cassa; l’ultima immagine.
Nero.
Ancora colpi, ma ormai l’obbiettivo non li sente più.

Hanno il fiatone, come se avessero corso. Gli vanno vicino e continuano a sparare, -gratis- come quelli dei film americani, tenendo la pistola con due mani.
La ragazza è in piedi, abbandona il paesano. Adesso ha scelto, quel gesto col fazzoletto rosso era per segnare la sua preferenza su chi cadeva. Adesso deve dimostrare al villaggio che è indemoniata, non puttana.
E la ballerina abbandona il leader e danza sola, mantenendosi la veste. E più gira più si trasforma in lunatica dea. La musica è al massimo della velocità. Un tempo talmente sfrenato da perdere di tanto in tanto il ritmo.
I bottari percuotono fortissimo.
I due guardano poi fuggono, raggiungono le moto e spariscono nel nero che li inghiotte e se li porta via.


Intanto la ballerina/malata, rinsavisce. La musica termina stavolta lentamente alla casa della tarantolata e nella piazza, dove la donna si riprende e rientra nel contesto del suo gruppo.
La gente la guarda con stupore e applaude un poco attonita.
La gente guarda con stupore e un poco attonita, ma neanche tanto, il consueto spettacolo al negozio TIM.
Tra poco inizieranno i rilievi poi una mano neutra passerà acqua e candeggina sul pavimento.

Gli amici bussano alla porta.
I due si sono cambiati poi sono tornati, mischiati con la folla, sono andati a vedere lo spettacolo da loro stessi prodotto. Stanno prudentemente dietro e allungano il collo.
Poi uno dei due chiede ”Che è stato?”.
tempo (coincidente con la lettura più coda parlata fino a: ragno letale )
Napoli, 2005. Comincia a piovere.
TRACCIA 2 FINE 13.08 min
































“Sono nata dove la pioggia
porta ancora il profumo dell’ebano,
una terra là dove il cemento ancora non strangola il sole.
Tutti dicevano che ero bella
come la grande notte africana
e nei miei occhi splendeva la luna.
Mi chiamavano la perla nera”.
TRACCIA 3(1) 1.25min.

Hasan Kalif Odan lascia la sua casa e la sua terra, la Somalia, e raggiunge l’Italia perché le hanno detto che lì può realizzare i suoi sogni.
La cosa non dovrebbe essere così difficile; è bella anche se di statura minuta.

Arriva a Napoli e inizia a frequentare i locali.
1995, giugno.
Accetta un passaggio da un ragazzo all’uscita di un locale. Un giro in machina in tre e poi la riporteranno a casa.
L’auto corre veloce, per non darle neanche il tempo di aprire la porta e cercare di buttarsi giù. Entra nel paese di S. Antonio Abate, lo supera, si dirige verso un casolare. E’ notte.
La tirano giù e la violentano a turno; uno la mantiene mentre l’altro la stupra, poi si danno il cambio.
Arrivano altri venticinque compari.
La trascinano dentro al casolare.
La legano, torturano e violentano. Sono ventisette.
Ci rimarrà diversi giorni attaccata al carro, seminuda, sporca.
Le sue urla richiamano l’attenzione di una pattuglia di ronda.
Gli agenti non la toccano. Per loro la prima cosa è prenderli.
Si nascondono.
Lei continua ad urlare, il sangue che corre nelle tempie. Il cuore batte come il tamburo di grancassa. Cupo e forte e a volte pungente; salta ritmicamente il corpo nudo legato sulla terra nuda. Lo sguardo fisso alla porta, aspettando che tornano. Lacrime e sudore le colano sul collo, in bocca in gola.
TORNANO!
Sparano, gli altri rispondono al fuoco tentando di fuggire. Li prenderanno tutti.
Lei rimane legata alla ruota del carro, seminuda, sporca con i proiettili che le fischiano nelle orecchie e nemmeno le mani per difendersi. Gambe idratate di sudore e imbrattate di sangue, sperma, terra.

Quando la slegano è calma.

Al pronto soccorso i suoi occhi sono fissi sui tubi bianchi dei neon che le corrono sulla testa. Alcune facce la scrutano. Odore di disinfettante che stordisce e rianima,
La dimettono.

Nei giorni che seguono il paese di S. Antonio Abate organizza una fiaccolata.
In difesa degli stupratori!

Da quel giorno dimentica per sempre il suo nome. Non riesce a ritrovare la via di casa, non ha documenti con sé, nessuno la può aiutare.
A chi glielo chiede risponde Jasmine, Janet, Nadia.
TRACCIA 4 -5 Ebano


Da “Un anno senza Janet” di Luca Musella Ed. Nonsoloparole.


2002 Inverno
Janet passava sempre all’angolo di via Toledo dove Nicolino, quando ha genio, mette la bancarella.
-Tu non hai pazienza. Scappavi appena iniziava a parlare. Io l’ascoltavo. Per ore. Mi parlava di un uomo che l’avrebbe salvata. Non capisco da cosa. Aveva una lingua strana, incomprensibile.
Beveva, beveva anche di mattina presto. A volte era intollerabile e dovevo allontanarla. A volte puzzava. Sembrava pazza, completamente fuori.
C’erano associazioni che volevano aiutarla. Ma per capire devi avere un linguaggio, un codice su cui intenderti.
Janet era così: un giorno beveva e malediva il mondo, un altro beveva e lo amava…-

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Da Gomorra di Roberto Saviano:

24 gennaio 2005
Quando i killer sono entrati nel negozio stringevano già i calci delle pistole. Era chiaro che non volevano rapinare ma uccidere, punire.
Attilio ha tentato di nascondersi dietro al bancone. Sapeva che non serviva a nulla ma magari ha sperato segnalasse che era disarmato, che non c’entrava nulla, che non aveva fatto niente.

Gli hanno sparato, hanno scaricato i loro caricatori e dopo il “servizio” sono usciti, qualcuno dice con calma, come se avessero acquistato un telefonino…

Attilio è lì. Sangue ovunque . Sembra quasi che l’anima gli sia scolata via da quei fori di proiettile che lo hanno marchiato in tutto il corpo.

Lavorava in un negozio di telefonia e poi per arrotondare in un call center. Ha creduto buona cosa diventare azionista di quel negozio dove ha trovato la morte. ..Si fida del suo socio, una lontana parentela con il boss di Bacoli. Gli basta sapere che è una persona che vive del suo mestiere faticando molto, troppo.


Il corpo di Attilio è ancora a terra quando arrivano i parenti. Due donne. Nel percorso si stringono, camminano avvinghiate spalla incollata all’altra spalla, ormai sono le uniche a sperare…

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2002 inverno.
Samuele è un barbone marocchino, compagno di sbronze di Janet.
Soffre di crisi di epilessia. La prima gli è capitata alle tre del mattino in piazza Castello. E’ rimasto due ore per terra duro. Il sangue gli usciva dalla testa, dal naso.
Ha un braccio rotto, un occhio malandato un ginocchio andato, pochi denti tutti doloranti.
La testa rotta in più parti, l’asma.
Ha smesso di bere e di prendere caffè, ma non basta; il medico gli ha detto che deve allontanare la rabbia.!.
Quando piove dorme nell’androne del palazzo di Naldi, il presidente della Società calcio Napoli. Il patto è chiaro: deve entrare dopo le venti e uscire prima delle sette.
Un bel gesto, tutto sommato.
Venendo in Italia,aveva avuto la sensazione di essersi ripreso la vita, adesso è un fantasma senza età. Per sopravvivere fa la colletta a via Toledo. Ha bisogno di almeno 16 euro al giorno per le medicine e se gli stringi forte la mano strilla per il dolore.

- “Ho conosciuto Janet nel 1995.
Eravamo alla discoteca Buca Nera. Una sera un ragazzo la invitò a fare un giro, lei accettò.
Da allora il nulla. Elemosina e alcool. Aveva anche un marocchino alle costole, non riusciva a liberarsene, forse non voleva. Lui la picchiava gli rubava i soldi delle elemosine. si approfittava sessualmente di lei, del resto non era il solo.
Era capace di venire al circolo e di bersi tutti i soldi di Janet ma di lasciarla fuori.
Gli ha rotto una mano, aveva sempre gli occhi gonfi e neri, graffi, una volta l’ha gettata per le scale del colonnato di Piazza Plebiscito”-.

-“Ragazzetti, bianchi, vecchi benestanti, altri africani. A Janet La picchiavano tutti.
Solo l’alcool era il rimedio. Sempre l’alcool.
Aveva crisi di nervi violente, era epilettica. Dimagriva, non mangiava quasi mai.
Bevevamo insieme. Con me si sentiva sicura, arrivava in mezzo a noi all’improvviso.
Buttava i soldi per terra per dividerli con noi. Della violenza non ha mai voluto parlare. Anche quando scompariva per qualche giorno per tornare tutta livida, non diceva niente”-.

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25 gennaio 2005 Il MATTINO Cronaca di Napoli
Il lamento di una mamma rompe il silenzio. Hanno ucciso suo figlio, colpendolo anche in volto, nemmeno lei lo riconoscerebbe, i carabinieri non le permetteranno di vederlo. Umana pietà. Lei grida. «No, Attilio no. Non è lui, non può essere lui». La donna barcolla mentre ripete il suo lamento, la reggono, ma si divincola, la tengono, ma rischia di cadere in quel dondolio ossessivo e consolatorio.
…Per lei una sedia, gliela trovano in un negozio vicino, la sistemano alla meglio in un angolo riparato della scena del crimine.


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- Janet “Voleva solo bere. Gli serviva. Ma la notte gridava nel sonno. Erano urla di terrore. Cercavamo di consolarla ma lei si girava su un fianco e continuava a dormire.
Per Janet era normale gridare da sola”-.
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Febbraio 2002
METEO: Una perturbazione a carattere temporalesco. si addensa sul Centro-Sud Italia portando instabilità, aria umida e piogge sparse lungo le coste
Temperatura in diminuzione nei valori minimi.


E’ difficile dormire all’aria aperta. Senti tutta l’umidità nelle ossa come fosse acqua.
Ci si addormenta tardi la notte e ci si sveglia prestissimo. Alle sei sei già in piedi.
A quell’ora però è facile fare solo i propri bisogni.
C’è chi si adatta a farli in una busta di plastica per poi gettare il fattaccio in un cassonetto.
C’è chi non ha questo spirito ecologista e lascia tutto per strada. Janet apparteneva a questa categoria. Quando era sbronza era capace di farlo avanti a tutti.
Dalle sei alle otto è il momento più duro della giornata. Fa freddo, si hanno dolori ovunque, è tutto chiuso.
Se si ha tanta fame si divide il pasto coi cani. Ci sono sempre tre o quattro vecchiette che portano gli avanzi ai cani. Spesso è roba saporita, quasi mai calda.
Alle otto e mezza si inizia a fare l’elemosina. Qualche bar dà via i cornetti avanzati del giorno precedente e ti fa anche un cappuccino in bicchiere di plastica.
La giornata trascorre più o meno così: si beve e si fa l’elemosina.

I volontari consegnano cibo e coperte solo la sera.
Verso sera qualcuno raggiunge le varie mense qualche altro è raggiunto dai volontari.
Molti si fottono.


Marzo 2002
Meteo: “Piogge leggere interesseranno la Campania per le prossime 48 ore.
Tendenza. Peggioramento del tempo a causa di una perturbazione proveniente da Nord Est che porterà un brusco abbassamento delle temperature.


La vita di Janet, negli ultimi tempi si volgeva entro un perimetro abbastanza chiaro. Una specie di triangolo che aveva come base il tratto di strada che va da piazza del Plebiscito a piazza Castello, come altezza il primo tratto di via Toledo, come vertice vico Maddalenelle ai quartieri Spagnoli, una delle zone più malfamate della città.

Janet si svegliava all’alba: Tremava come una foglia. Aveva bisogno di una o due birre per calmare il tremito. A quell’ora ci sono poche persone in giro ma tutti le davano qualcosa e, appena apriva un bar riusciva a comprarsi due Peroni grandi. Acquietato il tremolio si sedeva su una panchina sotto il comune e riposava un poco.
Poi si dirigeva verso via Toledo dove faceva l’elemosina.
Ogni volta che metteva due euro da parte, se nel frattempo non era venuto il marocchino a rubargliele saliva ai quartieri a bere.



Traccia 6
(La panza vuota pensa a chella chiena
Ma chella chiena noun ce penza mai.
Si pure dice ca ce penza assai, non ce credite, non ce penza mai. )

15 Marzo 2002 Il Mattino
Taccuino; Domenica 17 alle ore 18.30 all’Hotel San Germano Torneo Open 2 di Burraco organizzato dal Centro Italiano Campioni con il patrocinio della BUR IT
Per info:348…..

La fintobionda moglie del noto odontoiatra di Posillipo scende dal fuoristrada BMW nero, ha con sé due bambini bellissimi e vestiti Benetton. Attraversa la strada e entra nel bar Serpentone. L’amica fotocopia l’aspetta al tavolino con un caffè. Devono decidere la palestra per tonificare glutei e interno cosce poi il fitness e lo step. I bambini stampano nasi, bocche e mani appiccicose sulla vetrina dei gelati. La fintobionda va verso la cassa per pagare i gelati e si ferma al banco salumeria incantata. 200 grammi di tartufo nel risotto di sabato sera, per fare bella figura con gli amici…..

Janet Si fermava alla Cantina del Boss, oppure da Titina oppure al Circolo Mar Rosso, un ristorante eritreo. La giornata passava così.
Saliva e scendeva dai Quartieri sempre più sfatta dall’alcool. Verso le 14 iniziava a sconnettere. Doveva mangiare qualcosa ma spesso non ne aveva voglia.
Poi si sedeva un’oretta a Ponte di Tappia, a quell’ora piena di luce, il suo volto faceva spavento.
Il pomeriggio ricominciava: un po’ beveva un po’ faceva la questua. L’alcool ha il misterioso potere di far digerire ogni cosa. Janet sapeva il mistero del vino. Affrontava le paure, i traumi, la certezza che a bere qualcuno l’avrebbe picchiata derubata, violentata, con uno strano sorriso stampato in faccia. Poi scendeva l’orrore.
Tranne il giovedì sera, quando un gruppo di volontari passava a cercarla e trascorreva un paio d’ore con lei, senza però cavarne molto.



Ogni notte era un delirio.
Veniva sballottata come un pupazzo.
Ogni freno smarrito.
Ogni speranza umiliata.
Aveva attacchi di epilessia crisi di panico, vagabondava senza meta nel labirinto dei vicoli. Come una belva ferita.
Spesso aveva la febbre alta.
Il puzzo di orina, e del sudore.
Tracce di sangue sui vestiti, in faccia.
Vagava fuggendo dal suo persecutore o cercandolo.
Poi, sanguinante e sconfitta si andava a coricare nel vicolo dietro la Banca d’Italia oppure sotto il bastione del Castello. Si lasciava andare stremata su un cartone e cercava di dormire.


Ma, anche nel sonno, continuava l’oltraggio;
sentiva mani ignote dentro la carne,
sentiva il fischio delle navi lontane, sentiva lo scuorno dei suoi pochi pensieri.
Allora si svegliava urlando.

Pausa Traccia 7 4.09min
Nella traccia: La sua vita era lì. Mostrava alla luna tutto il ribrezzo possibile.


Traccia 8 Marco Lindo Ferretti
La vita è una gran cosa.
Lo dice la Leho,
Mia anziana parente e vicina di casa.

Ha Lavorato sempre, mai preteso niente,
patita la fame e la miseria abbondante.
A parte la salute,
nessuna fortuna mai l'ha toccata mai.
Mai.
Ma se, una volta morta, Dio le dicesse:
"Leho, torna laggiù, ti tocca tutto quello che ti è toccato già"
Si illuminano gli occhi,
sorridono i pensieri nella mente
"Ci direi: Si Signore,
torno laggiù, uguale.
la vita è una gran cosa.
Mi basta aprire gli occhi su un mattino di sole
e tutto il resto io lo rifarei".


Janet quando era allegra cantava. La voce era quella della sua terra, la Somalia. Melodie da bambina africana. Cantava e beveva. Era stata bella.
Aveva studiato a Roma.
Una notte prese un passaggio e finì dentro un casolare.



Anno 2002. NUOVLE E PIOGGIA LEGGERA FREDDO.

CON L’ACCUSA DI VIOLENZA SESSUALE DI GRUPPO E LESIONI, TRE PERSONE SONO STATE CONDANNATE CON RITO ABBREVIATO, ALLA PENA DI UN ANNO E DIECI MESI.
Gi imputati in tutto furono 7, quattro sono ancora in attesa di giudizio, degli altri venti non si sa più niente.

(Janet incontra Luca, gli va incontro).
Janet aveva un occhio chiuso. Tumefatto. L’altro era vitreo, sordo. La faccia stravolta dalla notte all’aperto. Sembrava molto malata. I capelli erano corti. Sporchissimi. Spettinati. Indossava un piumino bianco enorme. Le mani non si vedevano pareva uno spaventapasseri.
“Mi osservava in silenzio. Io non ho neanche rallentato e ho tirato dritto. Lei ha seguito i miei movimenti.
Immobile”.
“L’ultima volta che l’ho vista, novembre 2002”.


24 gennaio 2005
Sperano, sperano sperano e sperano ancora che ci sia stato un errore una bugia nel passaparola, un fraintendimento del Maresciallo dei Carabinieri che annunciava l’assassinio.

Sperano sperano sperano e sperano ancora, come se ostinarsi maggiormete nel credere qualcosa possa davvero mutare il corso degli eventi. In quel momento la pressione arteriosa della speranza raggiunge una massima assoluta, senza minima alcuna.
Ma non c’è niente da fare.
Le urla e i pianti mostrano la forza di gravità del reale.
Attilio è lì, per terra.

Pausa Traccia 9 Vinicio Capossela.
Coro: Oh Matri mia
Salvezza prendimi nell’anima
Oh Matri mia
Salvezza..



Un’anima che scappa, si perde.
Janet iniziò a perdersi. Nel vino, nel grigiore, nel nulla.
L’alcool aveva annientato il suo spirito; attutiva, ovattava il dolore, leniva le ferite.

…Sei anni…
Traccia 10 Vinicio Capossela.
Coro: Oh Santissima dei Naufragati
Vieni a noi che siamo andati
Senza lacrime, senza gloria,
Vieni a noi per noi pietà.


La notte scendeva nella sua vita.

Il destino era compiuto.
Una mattina era sbronza, gli occhi tumefatti dall’ennesima violenza subita. I vestiti laceri.
All’ospedale Ascalesi, l’anno pure medicata.
Esce dall’ospedale Ascalesi e si lascia andare sull’asfalto.
Pausa. Traccia 11 4.03 Min



Non sono tempi buoni. Le giornate sono umide e fredde, poca luce, acqua nel cielo, freddo, a volte vento.
Chiusa nel suo piumino bianco continua a stendere la mano verso la gente che passa e che, a volte, le dà qualcosa. Ma non basta e li prega; non ottiene niente e impreca, urla, gli urla contro. Per avere qualche centesimo.
URLA CONTRO LA GENTE PER AVERE QUALCHE CENTESIMO!!
La gente ha paura e si allontana.
E LEI URLA PERCHE’ LORO SI ALLONTANANO, E Più URLA Più LORO SI ALLONTANANO, ALLORA LEI URLA Più FORTE.



All’Ascalesi non avevano tempo per lei.

Venerdì 6 dicembre 2002
La parcheggiano su una panchina di fronte al pronto soccorso in attesa di sbrigare altri casi e poi andare a prenderla.
La conoscevano, sapevano che non era grave, che era Janet, che non c’era ormai più niente da fare.
E’ seduta su una panchina e guarda all’interno della sala. Le infermiere sono vestite con casacche verdi e sorridono agli infermi, arrivano medici con camice sbottonate sul petto nudo e camici bianchi che parlano, carezzano e ridono.
L’immagine diventa sempre più nitida ai suoi occhi; il freddo svanisce; adesso anche lei è in quel bel tepore. Tutti le sorridono e le portano cose calde da bere. Le carezzano e le curano le ferite, la baciano e le dicono cose carine, rassicuranti.
Poi l’immagine cambia. Un’isola in mezzo all’Oceano con future veline ed ex calciatori che giocano ad avere fame. Sono tutti stanchi e emaciati, mentre le telecamere riprendono Janet, giovane ragazza di colore in splendida forma che mangia il suo pugno di riso poi sorridente, bellissima nuda e baciata dal sole che si immerge nell’Oceano e ritorna con uno splendido pesce bianco per i suoi compagni e per lei.
Nessuno la nominerà mai e lei vincerà l’edizione di quell’anno. I suoi denti splendono bianchissimi in quell’ovale perfetto e bruno che è la sua faccia.
Gli italiani la amano.
Sorride, sente caldo.
Poi l’immagine cambia. Infermeria calda ed accogliente dove lei aspetta di entrare.
La pioggia si manifesta in forma di nebbia leggera e in quella nebbia lei perde e ritrova il pronto soccorso avanti ai suoi occhi. Ma non vuole mollare così si tiene sveglia e lo fissa bene.
Si allontana. Su un binario di treno, piano piano sfugge dal suo sguardo, sempre più lontano e sempre più piccolo.
Sempre più stanca.
Sempre più lontano, velocemente lontano. Ultima immagine.
Sole africano, poi gli occhi si chiudono.
“Dove sono… Dimmi, dove sono?”



Su una panchina nel cortile dell’Ospedale,
in attesa di essere ricevuta al pronto soccorso, Janet restituisce una cosa da poco conto:
la sua anima a Dio.

Traccia 12 EBANO
Ebano,
It’s a long long night
It’s a long long time
It’s a long long road


FOTO 10 via di qui




























DA: Medicina Democratica: Storia di Genet


“Venerdì 6 dicembre (2002) una 32 enne di nazionalità somala, Hasan Kalif Hodan, è deceduta dentro l’ospedale Ascalesi, dopo essere rimasta molte ore –forse 26-, all’interno dell’atrio del Pronto Soccorso ove si era recata per farsi medicare le ferite al capo…

…Si era presentata la sera del mercoledì 4 dicembre al pronto soccorso del suddetto ospedale e con due ferite lacero-contuse, una al viso, l’altra alla nuca.
Diceva di essersele procurate con una caduta accidentale (!?) e, dopo aver ricevuto una medicazione chirurgica è stata dimessa.

… Da quel momento la donna che, secondo i Sanitari era in stato di ubriachezza, non si sarebbe mai allontanata dall’ ospedale. Il fatto certo è che dalle 17 alle 20 circa del giorno dopo (5 dicembre nda) la ragazza è ancora nel cortile e viene contattata da qualcuno dei volontari del Centro di Documentazione.

… La donna non sta bene, si stende su una barella nel cortile, a tratti non si capisce cosa dice, sembra che cerchi aiuto.
Viene sollecitato l’intervento dei Sanitari del pronto Soccorso che sminuiscono la cosa ma, assicurano, sarebbero intervenuti.
(sta smaltendo la sbornia….).

…La donna muore nella notte di venerdì sempre all’Ascalesi dopo aver emesso sangue dalla bocca.

La versione ufficiale è che la “sbornia” avrebbe provocato una pancreatite acuta.


Forum per il Diritto alla Salute - Napoli

Col. Douglas Mortimer

venerdì 9 novembre 2007

BUIO..


Nella mente.

L’uomo aveva da un po’ passato la cinquantina e, adesso che i figli se ne erano andati, viveva solo con la moglie che adorava. Era un tipo giovanile che giocava al calcetto il lunedì e lei una di quelle aggiornate che vanno al cinema sempre, con le amiche e quando si paga di meno.
Abitavano a Fuorigrotta, città di Napoli.
Lei era l’unico affetto certo che aveva, il suo scoglio, il porto sicuro e rifugio nelle malattie, la gioia, il costante e infinito ricontrarsi ogni mattina dopo aver dormito nel loro modo strano, abbracciati da dietro.
Era anche la persona con cui faceva l’amore quasi sempre (tranne qualche segretaria) e avevano passato insieme tutte le tempeste della vita.

Quello era il pomeriggio del suo cinema e avvenne qualcosa.
O una mail di lei per sbaglio capitò nel suo computer o, più facilmente, sentendosi solo lui entrò nell’ indirizzo di posta elettronica della moglie e si mise a scrutare nella speranza di trovare qualcosa di nuovo e di eccitante.

“Caro amico che mi accompagni da anni” (?!?) “ieri ancora l’ho rivisto. E’ come dici tu, è brutto, grasso, antipatico e poi è volgare un cafone schifoso con quella pancia ributtante e l’alito che puzza di vino. E poi bestemmia ed impreca una continuazione e tu hai perfettamente ragione, non è proprio adatto a me. Mi fa schifo e non posso fare a meno di lui. E’ così rivoltante, così sporco e così violento.
Ieri, dunque eravamo al capolinea del tram e, come al solito mi riaccompagnava fin dove gli era consentito. Ci stavamo separando quando, improvvisamente mi sono trovata schiacciata contro il muro di lui. Una mano mi premeva sulla schiena e l’altra spingeva la mia faccia, la mia bocca contro la sua. Mi forzò con le sue labbra finche io aprii le mie poi con una lingua di ferro mi spalancò i denti, nonostante io facessi di tutto per serrarli.
poi entrò con la sua lingua nella mia bocca e mi sentii presa dl panico.
Non volevo, ma non riuscivo a dire di no
Dopo un po’, caro amico, mi trovai -non chiedermi perché-, a premere anch’io la mano dietro al sua testa e a spingermi sempre più dentro in quella esplorazione che mi provocava il vomito ma di cui non potevo fare a meno.
Automaticamente la mano cominciò a scendere cercan


A volte in campagna si innalzano grandi covoni pronti per esser bruciati, ma poi piove e, il contadino per accenderli usa la benzina.
Nel momento che lanci il fiammifero ti senti invaso in meno di un attimo da un vento caldissimo che ti arriva alla radice dei capelli e devi scappare subito, altrimenti bruci. E’un istante e solo quelli bravi riescono a farlo.
L’onda di fuoco è improvvisa e violentissima e se rimani fermo ti consuma prima delle fascine.

Così si sentì l’uomo. A stento risucì a mettere tutto a posto e poi fu preso da una grande smania.
Non pensare, non pensare. Cammina.
Dalla sua mente dovevano andare via tutti i pensieri che riguardavano sua moglie quella lettura e questa faccenda. Non poteva tenerli dentro perché erano come il covone acceso con la benzina.
Allora c’era una cosa sola da fare: camminare.
E occupare la mente di imperativi categorici e assoluti.

Tutta la sua mente era presa da un monologo velocissimo e gli comandava cosa fare.
Scendere, uscire, camminare. Non fermarti, non fermarti, qualsiasi cosa accada tu non fermarti. Non fermarti mai!
E cammina veloce con le mani fuori dalle tasche, aiutandoti nel movimento.
E non piangere e non gemere, e non gridare. Cammina, Tutte le tue energie devono essere consumate solo in questa azione.
Non cedere il passo alla signora che incroci, prosegui dritto e cerca di non deviare mai. Non deviare mai. Non devi deviare.
Devi camminare senza una meta, senza uno scopo. Non scegliere un posto dove andare, ripeto non devi scegliere un posto, ma semplicemente prendi le strade in pianura e in discesa.
Non prendere le salite. Non le devi prendere. Ti rallenterebbero il passo e ti costringerebbero a pensare e, invece tu non devi pensare.
Continua a camminare attraversa le strade senza curarti dei semafori. Le auto avranno paura –loro di te-, e ti scanseranno. Adesso è più pericoloso fermarsi che attraversare di getto. Tu attraversa di getto!
Non curarti del tuo aspetto, non curarti del tuo sudore, non asciugarti il sudore. Il tuo sudore non lo devi asciugare. Mai.
Le tue mani devono solo aiutarti a camminare.
Cammina verso il Viale Augusto, poi traversa la piazza, poi vai per il viale del parco dei giochi e poi per il lungomare. Non curarti delle persone, non guardare mai in faccia le persone che incontri. Questo è fondamentale, non guardare nessuno in faccia. Mai.
Guarda avanti a te e continua a camminare fino a quando non ce la farai più.
Se ti senti stanco allora fermati e pensa a una cosa che hai letto.
Se sei ancora nella fase dell’esplosione questa cosa ti farà camminare di nuovo.
Asseconda il tuo istinto. Il tuo istinto, il tuo istinto ti dice di camminare e tu vai avanti.
La voce dentro era monocorde ed imperiosa, una voce da basso come non l’aveva mai sentita. Nuova.

Arrivò verso Pozzuoli e si rese conto che i pensieri potevano arrivare alla sua mente facendogli male ma senza provocargli ustioni.
Così aspettò il tram e si rimise in viaggio verso casa.

Capita che il contadino col forcone attizzi il fuoco e, da ceneri ancora calde si rialzi una violenta e, di nuovo improvvisa, fiamma.
Come una molla si alzò dal suo posto e corse vero la porta. Iniziò a prenderla a calci e a pugni. Il conducente impaurito lo aprì e lui cominciò a camminare di nuovo, stavolta verso casa.
Sua moglie era tornata –c’era la macchina nel posto assegnato-. Come si sarebbe presentato e che le avrebbe detto. Le avrebbe detto qualcosa?
Nell’ascensore si guardò a lungo allo specchio. Poi entrò in casa. Lei era in cucina. Lui scivolò nel bagno e si fece una doccia bollente.
Sono delle saune domestiche. Metti il termostato al massimo e rimani fermo ad ustionarti. Poi esci ti metti l’accappatoio e ti butti sul letto, quasi svenuto e senza forze.
Ma rilassano.

Poco dopo era a tavola. Lei cucinava le uova e ci metteva, come al solito la sottiletta come piace a lui. Prese la bottiglia e versò il vino. Prima a lei. Poi tagliò il pane. Lei gli passò vicino e gli porse il piatto con un carezza.
Lui prese la forchetta. Poi, come d’abitudine, attese che lei finisse, che si sedesse, che prendesse il primo boccone e cominciarono, parlando delle solite cose: del film, dei figli.

NO! CAZZO NO!
Come una furia si alzò dal tavolo uscì sul terrazzino. C’era una cassetta con dodici bottiglie di vino rosso. Lui urlando le ruppe tutte a terra, inondando il balcone di liquido rosso dall’odore acre come il sangue. Il vino cadeva sui gerani di quello di sotto poi sulle teste dei passanti e sui tetti delle macchine.
Sua moglie lo guardava smarrita, con la forchetta a metà altezza e la bocca ancora aperta. NO!! NO, NO!!

Dai balconi, i dirimpettai sentito quel fragore di vetri e quel monosillabo urlato, si affacciarono, uno o due alla volta a vedere quello spettacolo e a chiedersi il perché
Un uomo cortese potesse impazzire all’improvviso.



Col. Douglas Mortimer