martedì 17 luglio 2007

NAUFRAGIO IN CALMA PIATTA


NAUFRAGIO IN CALMA PIATTA

Ci trovammo verso l’Equatore. Il vento calò e nessun santo o demone ci aiutò a portare avanti la barca e a giungere dove la follia del nostro Capitano voleva condurci.
I miei compagni di notte iniziarono a ballare e a finire bottiglie di rum, il capitano fisso sul timone cercava con occhi il suo spettro, la pazzia che lo aveva condotto. E noi con lui, fin lì-.
Lo fissava, ci parlava,ci faceva l’amore, lo corteggiava. E noi con lui, fin lì.

E il comandante è pazzo
E avanza nel peccato
E il demone che è suo
Adesso vuole mio.
Brinda con il sangue
All’odio ci convince
Che se è la sua la barca che vince
Dev’essere la mia.

La follia s’impossessava dei miei compagni al calare del buio.
Di giorno crollavano. E io con loro.

Eravamo stanchi del niente, le provviste iniziavano a diminuire e l’acqua che ci circondava a perdita d’occhio era diventata preziosa come qualcosa di cui cominciavamo ad avere una lontana memoria.
E pure era lì, ci guardava e ci invitava.
Niente.
Giorni senza movimento, la mattina che cedeva il posto alla sera che si allontanava al sopraggiungere della notte e nulla che ci facesse percepire un pur piccolo spostamento. La notte si spegneva e cedeva il posto al sole.
E noi lì.

E il vento non alzava
E il mare imputridiva
Legati ad un sol raggio
Tutti presi in ostaggio
Avanzavamo lenti
Senza ammutinamenti.

Improvviso iniziò l’affanno. Non mi ero mosso dalle sartie dove riposavo l’intero giorno eppure il cuore inizio a battere un po’ più forte.
Non ci feci caso.
Poi ancora di più. Poi ancora e iniziò l’affanno dopo una breve corsa. Ma non mi ero mosso.
All’inizio seguii curioso questo cambiamento come una novità ma poi mi premurai di allontanarmi, di sfuggire da esso.
Mi alzai e cominciai a camminare sul ponte della barca. Mi seguiva.
Più veloce, non mi lasciava di passo.
Correvo e gridavo, poi mi fermavo e il cuore continuava a battere forte. Allora mi fermavo e sedevo. Continuava.
La nave era ferma, immobile in un punto che non sapevamo non avendo più il movimento come coordinata di riferimento.
Il cuore si fermò. Caddi in un sonno buio come la notte. Senza sogni e senza stelle.

NAUFRAGHI.
Di nuovo quel battito e di nuovo alzarmi e camminare. Adesso gli avevo dato una veste, un’ufficialità. Lo avevo riconosciuto Adesso quel battito apparteneva a me, era mio e dovevo vincerlo.
Mi resi conto del poco spazio che avevo. Solo metri e poi il niente. Nessuna possibilità di fuga. Ero prigioniero, in un infinito mare, di poche tavole di legno marcio. E la follia dei miei compagni con me.
Camminavo e gridavo, mi tenevo la tesa, correvo. Mi seguiva.

Improvviso, nel cielo grigio di vapore, l’Uccello che Porta Bene.
Si alzò il vento, camminavamo di nuovo. Eravamo liberi. Ero libero.
Ma il cuore continuava a battere fortissimo, non so se per l’emozione di essermi liberato da quella prigione o per la paura di caderci di nuovo. Adesso avevo paura che si rompesse, di morire.
Gli altri erano felici e gridavano, il Comandante immobile con gli occhi di fuoco guardava la materia del suo odio divenuta carne che gli ballava avanti agli occhi, solo a lui.
Fissai i miei occhi nei suoi. Ebbi paura. Più paura adesso di prima, Adesso lo guardavo da uomo libero e avevo paura.
Chi era l’oggetto di tanto furore.
Il cuore batteva forte che si stava per rompere e la nave andava, quando per interrompere questo terrore lo colpii.
Colpii il domandante, l’alabatros. L’uccello cadde.

Mi sentii subito calmo, il cuore si era placato, i battiti regolari.
Rialzai gli occhi a quelli del mio Capitano e una cosa che non so si ruppe dentro.
Aria di fuoco nei polmoni, le gambe inanimate non mi mantenevano.
Ero io.
La materia di carne che quell’uomo odiava, solo che non lo sapeva ancora e aspettava che accadesse qualcosa per dare un volto all’immagine buia che lo tormentava da anni. E l’equipaggio con lui.

“E venne dall’acqua
Venne dal mare
La penitenza
Dall’amaro del mare.

E il comandante avanza
e niente si può fare
vuole la morte, la vuole affrontare.

E il comandante è pazzo
E avanza nel peccato
E il demone che è suo
Adesso vuole mio.
Brinda con il sangue
All’odio ci convince
Che se è la sua la barca che vince
Dev’essere la mia.

E si fermò il vento. La barca si arrestò e rimanemmo muti ad attendere la maledizione che presto giunse in forma di vela. Avevamo tutti paura, tranne uno, cieco di rancore.

Coro: Oh Matri mia
Salvezza prendimi nell’anima
Oh Matri mia
Le ossa nell’acqua


E giunse su un vascello nero nella notte più scura. Due figure.
Morte e Vita-in-Morte sul quel ponte a giocarsi il destino dei marinai.
Morte se li prese uno per uno lasciando solo me all’avversario Vita-in-Morte
Che decise dei miei futuri giorni.
Non un pezzo di terra, non un fiore, non una lacrima per loro. Solo i fuochi sull’alto del pennone, fuochi fatui. Fuochi Sacri.

E gli occhi non videro
Non videro la luce
Non videro la messe
Che altri non l’avesse.
E il cielo fece nero
E urlò la nube al cielo
E s’affamò d’abisso
Che tutti ci prendesse


E gli uomini spegnevano
Spegnevano il respiro
Spegnevano la voce
Nel nome dell’odio che tutti ci appagò.
Il cielo rigò
Di sbarre il suo portale
Il volto di fuoco dentro imprigionò.

Lo spettro vedemmo
Venire di lontano
Veinire per ghermire
Nero di Dannazione
Vita-in-Morte Vita-in-Morte
Quello era il suo nome.

Coro: Oh Matri mia
Salvezza prendimi nell’anima
Oh Matri mia
Le ossa nell’acqua

“Prendi anche me! Ti prego! Traversare il fiume dei dannati e andare incontro alla maledizione eterna, ma non lasciarmi qui!”
Rimanere da solo sul legno fradicio di queste assi nel mezzo del mare senza un alito di vento e senza acqua senza spazio o movimento a guardare negli occhi la mia maledizione, i serpenti che emergono dalle acque fino a vederli belli ad amarli e a pregare per loro.


Anime bianche
Anime salvate
Anime venite
Anime addolorate.

Che io abbia due soldi
Due soldi sopra gli occhi
Due soldi per l’onore
Due monete in pegno
Per pagare il legno
La dura voga del traghettatore.

Vieni Occhi di Fluoro
Vieni al tuo lavoro
Vieni spettro del Tesoro
La vela tende
Il vento se la prende
La vela cade le Erinni allontanate
E accesi sui pennoni
I fuochi fatui
I fuochi alati della Santissima
Dei Naufragati.

Coro: Oh Matri mia
Salvezza prendimi nell’anima
Oh Matri mia
Le ossa nell’acqua

Acqua, Acqua, Acqua in ogni dove
E nemmeno una goccia, nemmeno una goccia da bere

Questa è la ballata
Di chi s’è preso il mare
Che lapide non abbia,
né ossa sulla sabbia
né polvere ritorni
Ma bruci sui pennoni
Nei Fuochi Sacri
Nei Fuochi Alati
Della Santissima dei Naufragati


Coro: Oh Santissima dei Naufragati
Vieni a noi che siamo andati
Senza lacrime, senza gloria,
Vieni a noi per noi pietà.

Fino ad amare la maledizione a pregare per essa a vederne la bellezza. Solo allora sarò libero, ritornerò in terra a raccontare a voi, amico dello sposo, questa storia di vento e mare, di dannazione e di pietà.





Da
La ballata del vecchio marinaio 1798 S.T. Coleridge
S.S. dei Naufragati Vinicio Capossela
Col. Douglas Mortimer

martedì 10 luglio 2007

I DENSI VAPORI DI RHOSSILI BAY


Svegliarsi in un letto sconosciuto in una città straniera.
Sentire la forza dell’emozione scendere dal cervello verso le ginocchia e fermarsi nello stomaco. Quel attrazione irrefutabile verso il nuovo, l’immaginato, l’atteso, il sognato.
Nella mente iniziano a delinearsi paesaggi e profumi, visioni e sensazioni, calori e lampi, brividi e ansie, persone e colline, alberi e pietre. E’ questo il momento più bello del viaggio: la fantasia.
La costruzione casuale, irrazionale e passionale di aspettative sul luogo che ci si accinge a visitare. Il resto, la partenza, l’arrivo, la permanenza, gli incontri con cose, persone, cibi, e poi il ritorno, sono solo dettagli che si possono scomporre, rimuovere, ridefinire senza pericolo alcuno di vanificare il sogno. Le attese, certo, sono contaminate da informazioni inserite a priori nel disegno: una cartina, una foto scaricata da internet, un racconto, una lettura. E su questi pilastri il viaggiatore costruisce palazzi vetrati di mille colori, arredati con i divani più bizzarri e le tende più raffinate, scale contorte e portoni socchiusi. Su questa tela sfocata il viaggiatore intesse i suoi ricami ipnotici, con tratti discontinui, con mano intermittente, elettrica. La mente vola oltre le colline che s’intravedono dai finestrini sbiaditi di un treno silenzioso. Sembra che si viaggi sospesi sull’erba, senza attrito alcuno, senza concentrazione e premeditazione. Ma solo magnetismo e necessità. Lo sguardo sfugge dalle pareti cupe di stazioni insignificanti. Verso orizzonti lontani e coste scoscese. Il pensiero non resta imbrigliato in quotidiani gratuiti o nelle canzoni strillate da un ipod all’ultima moda. Invece, esso corre per labirinti elettrici, fatti di luci e scintille che trasmettono al viaggio delle cariche impreviste, sebbene inseguite. Durante il tragitto è impossibile dormire tant’è l’adrenalina che si affastella nel corpo e tiene sveglia fino all’ultima cellula. Non si dorme, ma ci si lascia cullare intontiti dal vagone ondulante che come un serpente metallico striscia a destra e a sinistra. E ad ogni oscillazione corrisponde un immagine. Ogni immagine si sovrappone alle altre in un quadro onirico che va perdendo sempre più i perimetri, che vede stingersi sempre più i colori, che vede mischiarsi in una macchia indistinta rocce, onde, boscaglie, casupole di legno. E il vento, sempre più vigoroso, mescola i colori, contorce la costa, alza il mare, fa volare la terra, disegna e ridisegna le spiagge. Confonde le persone, le frastorna in un vortice di percezioni che non si disgiungono più. Non si riesce più a capire dove finisce l’occhio e inizia la mente. Dove finisce il muro e inizia il quadro. Dove s’interrompe la scogliera e inizia il mare. Non si capisce neppure più se finisce il mare. Si ha la netta sensazione di far parte del quadro. Di essere stati disegnati da un pittore fiammingo stanco di tulipani e prati verdi.
E attratto dal fuoco. E sedotto dai ghiacciai. Qui il ghiaccio ribolle senza sciogliersi. Qui le vene s’intrecciano inestricabilmente coi rami e le radici. I piedi s’incollano al suolo che a sua volta si stacca dall’universo. Qui lo sguardo è ricacciato via dal furore dei venti, custodi di una bellezza suprema. Di una magnificenza che non è dato apprezzare se non per qualche istante, breve. Un’occhiata fugace. Tra una frustrata di acqua e uno schiaffo di vento. Uno sguardo lanciato con la coda dell’occhio. Uno sguardo a sinistra verso quell’isola temporanea e precaria. Soggetta alle maree e alle lusinghe delle sirene. E un altro sguardo a destra verso quella spiaggia rossiccia. Immensa, imponente, inospitale, inaccessibile. E, forse, per tutto questo suggestiva. Suggestione. E’ forse questo il termine che meglio di altri spiega la situazione. Uno si trova davanti ad un miracolo della natura. Sa di essere di fronte ad un’avvenenza irresistibile. E’ consapevole di stare ad un passo dal catturare in una foto un paesaggio sublime. E’ ansioso di assaporare ogni angolo, ogni cantuccio, ogni visuale di questo posto magico. E invece tutto questo è reso impossibile dalle intemperie. Dalle forze invincibili della natura che in uno scatto di possessività si ribella alla condivisione di questo tesoro con l’uomo. L’uomo che distrugge ogni giorno la natura. Che la violenta. Che la umilia. Quest’uomo non può pretendere di essere partecipe del più eccelso prodotto della natura. Quest’uomo non è degno di prendere parte alla festa, di essere partecipe dell’emozione, di condividerne la pienezza. Quest’uomo non può vivere nemmeno un momento in questo luogo. Non può pretendere di attraversare le soglie dell’inferno e del paradiso. Ma ci si può affacciare solo un attimo. Qui il paradiso e l’inferno sono un tuttuno. E forse l’unica possibilità che esista veramente un qualche paradiso è che questo sia intersecato ad un inferno che lo colori. E qui accade proprio questo: il paradiso sullo sfondo e pennellate d’inferno su e giù, da destra e da sinistra. Ma nonostante tutto non si rimane angosciati dal non potere guardare in faccia la luce, dal non potere fissare lo sguardo su quella testa rocciosa che portentosa spunta dalle acque, dal non potere accompagnare con una torsione del busto l’esplorazione della spiaggia circolare, dal non potere aprire le narici e ispirare la densità dell’aria, dal non poter sedersi e chiudere gli occhi per fermare quelle immagini per sempre. Quelle immagini resteranno invece per l’eternità confuse dentro il fortunato e impertinente osservatore. Confuse tra di loro. E confuse con tutto il resto che egli ha vissuto e che vivrà. Resta solo la sensazione di essere arrivato al capolinea e di non essere sceso dal tram per paura dell’abisso oltre le rotaie. Una paura fondata giacché il tram si chiamava desiderio.
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