martedì 10 luglio 2007

I DENSI VAPORI DI RHOSSILI BAY


Svegliarsi in un letto sconosciuto in una città straniera.
Sentire la forza dell’emozione scendere dal cervello verso le ginocchia e fermarsi nello stomaco. Quel attrazione irrefutabile verso il nuovo, l’immaginato, l’atteso, il sognato.
Nella mente iniziano a delinearsi paesaggi e profumi, visioni e sensazioni, calori e lampi, brividi e ansie, persone e colline, alberi e pietre. E’ questo il momento più bello del viaggio: la fantasia.
La costruzione casuale, irrazionale e passionale di aspettative sul luogo che ci si accinge a visitare. Il resto, la partenza, l’arrivo, la permanenza, gli incontri con cose, persone, cibi, e poi il ritorno, sono solo dettagli che si possono scomporre, rimuovere, ridefinire senza pericolo alcuno di vanificare il sogno. Le attese, certo, sono contaminate da informazioni inserite a priori nel disegno: una cartina, una foto scaricata da internet, un racconto, una lettura. E su questi pilastri il viaggiatore costruisce palazzi vetrati di mille colori, arredati con i divani più bizzarri e le tende più raffinate, scale contorte e portoni socchiusi. Su questa tela sfocata il viaggiatore intesse i suoi ricami ipnotici, con tratti discontinui, con mano intermittente, elettrica. La mente vola oltre le colline che s’intravedono dai finestrini sbiaditi di un treno silenzioso. Sembra che si viaggi sospesi sull’erba, senza attrito alcuno, senza concentrazione e premeditazione. Ma solo magnetismo e necessità. Lo sguardo sfugge dalle pareti cupe di stazioni insignificanti. Verso orizzonti lontani e coste scoscese. Il pensiero non resta imbrigliato in quotidiani gratuiti o nelle canzoni strillate da un ipod all’ultima moda. Invece, esso corre per labirinti elettrici, fatti di luci e scintille che trasmettono al viaggio delle cariche impreviste, sebbene inseguite. Durante il tragitto è impossibile dormire tant’è l’adrenalina che si affastella nel corpo e tiene sveglia fino all’ultima cellula. Non si dorme, ma ci si lascia cullare intontiti dal vagone ondulante che come un serpente metallico striscia a destra e a sinistra. E ad ogni oscillazione corrisponde un immagine. Ogni immagine si sovrappone alle altre in un quadro onirico che va perdendo sempre più i perimetri, che vede stingersi sempre più i colori, che vede mischiarsi in una macchia indistinta rocce, onde, boscaglie, casupole di legno. E il vento, sempre più vigoroso, mescola i colori, contorce la costa, alza il mare, fa volare la terra, disegna e ridisegna le spiagge. Confonde le persone, le frastorna in un vortice di percezioni che non si disgiungono più. Non si riesce più a capire dove finisce l’occhio e inizia la mente. Dove finisce il muro e inizia il quadro. Dove s’interrompe la scogliera e inizia il mare. Non si capisce neppure più se finisce il mare. Si ha la netta sensazione di far parte del quadro. Di essere stati disegnati da un pittore fiammingo stanco di tulipani e prati verdi.
E attratto dal fuoco. E sedotto dai ghiacciai. Qui il ghiaccio ribolle senza sciogliersi. Qui le vene s’intrecciano inestricabilmente coi rami e le radici. I piedi s’incollano al suolo che a sua volta si stacca dall’universo. Qui lo sguardo è ricacciato via dal furore dei venti, custodi di una bellezza suprema. Di una magnificenza che non è dato apprezzare se non per qualche istante, breve. Un’occhiata fugace. Tra una frustrata di acqua e uno schiaffo di vento. Uno sguardo lanciato con la coda dell’occhio. Uno sguardo a sinistra verso quell’isola temporanea e precaria. Soggetta alle maree e alle lusinghe delle sirene. E un altro sguardo a destra verso quella spiaggia rossiccia. Immensa, imponente, inospitale, inaccessibile. E, forse, per tutto questo suggestiva. Suggestione. E’ forse questo il termine che meglio di altri spiega la situazione. Uno si trova davanti ad un miracolo della natura. Sa di essere di fronte ad un’avvenenza irresistibile. E’ consapevole di stare ad un passo dal catturare in una foto un paesaggio sublime. E’ ansioso di assaporare ogni angolo, ogni cantuccio, ogni visuale di questo posto magico. E invece tutto questo è reso impossibile dalle intemperie. Dalle forze invincibili della natura che in uno scatto di possessività si ribella alla condivisione di questo tesoro con l’uomo. L’uomo che distrugge ogni giorno la natura. Che la violenta. Che la umilia. Quest’uomo non può pretendere di essere partecipe del più eccelso prodotto della natura. Quest’uomo non è degno di prendere parte alla festa, di essere partecipe dell’emozione, di condividerne la pienezza. Quest’uomo non può vivere nemmeno un momento in questo luogo. Non può pretendere di attraversare le soglie dell’inferno e del paradiso. Ma ci si può affacciare solo un attimo. Qui il paradiso e l’inferno sono un tuttuno. E forse l’unica possibilità che esista veramente un qualche paradiso è che questo sia intersecato ad un inferno che lo colori. E qui accade proprio questo: il paradiso sullo sfondo e pennellate d’inferno su e giù, da destra e da sinistra. Ma nonostante tutto non si rimane angosciati dal non potere guardare in faccia la luce, dal non potere fissare lo sguardo su quella testa rocciosa che portentosa spunta dalle acque, dal non potere accompagnare con una torsione del busto l’esplorazione della spiaggia circolare, dal non potere aprire le narici e ispirare la densità dell’aria, dal non poter sedersi e chiudere gli occhi per fermare quelle immagini per sempre. Quelle immagini resteranno invece per l’eternità confuse dentro il fortunato e impertinente osservatore. Confuse tra di loro. E confuse con tutto il resto che egli ha vissuto e che vivrà. Resta solo la sensazione di essere arrivato al capolinea e di non essere sceso dal tram per paura dell’abisso oltre le rotaie. Una paura fondata giacché il tram si chiamava desiderio.
gc br1

1 commento:

ceneriere ha detto...

Ma sei bravissimo!
Lascia tutto e fai dela tua vita un viaggio alla ricerca dei colori e dei disegni che così bene descrivi.
E prova adesso a descrivere la musica...
Credimi è un altro viaggio.

Complimenti.
Mimmo.-