sabato 28 aprile 2007

Gueules Noires

Gueules Noires
Autrice: Monica Ferretti
Editore: Nonsoloparole
RISCRITTURA ED ADATTAMENTO TEATRALE: Col Douglas Mortimer
I scena: Domenica 27.05 ore 21.00 Ass. Culturale Tiriciclo Piano di Sorrento
II scena: 20 Luglio parco giochi Piano di Sorrento via delle rose ore 21
III scena: 23 ottobre Teatro Mio Vico Equense ore 21
IV scena: CPS omunità Promozione e svuluppo via S. Vincenzo 16 Castellammare ore 21


8 agosto 1956, ore 8 del mattino:

Testuale:
“Quando è successo avevo appena caricato i vagoni,. Avevo fatto due cariche, come mi era stato detto, dopo mi sono spostato per spostare un vagone di ferro mentre l’altro amico che è rimasto con me è rimasto là. Se ha avuto una telefonata io non lo so.
Quando sono tornato ho trovato l’ascensore là e ho chiesto: Posso caricarlo l’ascensore? E lui mi ha detto; si, lavora. Perché lui era incaricato più di me, perché lui parlava bene il francese e io no. Poi lui se n’è andato al telefono.
Nello stesso tempo che lui era al telefono ho cominciato a caricare, appena ho messo il vagone dentro che non è andato regolare, l’ascensore è partito ed è rimasto incastrato.
Un attimo dopo ho visto che scendeva fumo, fiamme e scintille…
Sono scappato subito dalla parte dell’altro ascensore, nello stesso tempo il mio amico che lavorava con me è scappato dietro i vagoni vuoti. Io mi sono diretto alla porta per andare all’altro ascensore per dare l’allarme e avere l’opportunità di salvarmi….Io, gli altri….
Quando sono arrivato all’altro pozzo ho suonato per avere l’altro ascensore ma non me lo davano perché era occupato. E mentre aspettavo ho visto il fumo venire verso di me e ho pensato che l’affare era triste…. Avevo chiuso le porte perché sono fatte per non far passare l’aria, ma il fumo è passato lo stesso sotto di loro.
Ho dovuto aspettare che l’ascensore facesse due viaggi prima che si fermasse. Dentro c’erano due meccanici che venivano a lavorare dove ero io. Ho detto: restate dentro l’ascensore che dobbiamo rimontare perché qua è triste. E anche loro hanno visto che da dentro veniva il fumo e anche loro hanno avuto paura. …
Sono salito e siamo dovuti scendere prima a 1.035… quando siamo arrivati prima ancora che l’ascensore si fermasse abbiamo detto agli altri uomini: non caricate la gabbia che siamo in pericolo.. anzi cercate di liberarla per salire il personale se possibile così tutti restano salvi.---
Poi siamo rimontati. .-.”

Antonio Iannetta, operaio italiano, minatore ha cominciato il suo turno verso le ore 7 la mattina dell’8 agosto.
E’ uno dei tanti emigranti che l’Italia scambia con carbone. In Belgio nessuno vuole scendere a lavorare alla Mina, e quindi il Governo ha stabilito accordi commerciali con i vari paesi più poveri dove abbonda la disoccupazione e da dove sta iniziando una particolare migrazione interna. Dalle campagne alla città, alla fabbrica, inseguendo il sogno di un impiego meno faticoso, di un guadagno più alto, di condizioni di vita più umane.
50.000 operai doveva fornire l’Italia, in cambio avrebbe ricevuto 2.500 tonnellate di carbone ogni mille minatori inviati.
Questo accordo si chiama Protocollo d’Intesa italo-belga ed entra in funzione nel 1946.
Ed è così che sui sagrati delle piazze dei più lontani paesi, da Bolzano a Trapani, vengono affissi manifesti che raccontano della possibilità di farsi una piccola fortuna andando qualche anno a lavorare in miniera e tornando poi in paese finalmente benestanti.
E tanti partono nella speranza di ritornare di lì a qualche anno, portandosi dietro qualche soldo e prendere in gestione il bar della piazza.
Sarebbero stati raccolti in caserme per passare le visite mediche e poi spediti in treno alle varie destinazioni.


L’accordo prevedeva anche le mansioni degli operai italiani; ad essi sarebbero stati affidati i lavori di fondo, ovvero quelli che si svolgevano a maggiore profondità nel sottosuolo e che esponevano i minatori a rischi più elevati.
Il contratto aveva una durata minima obbligatoria di un anno, anche se generalmente la media era di cinque ed il permesso di soggiorno era legato a quello di lavoro. Quest’ultimo era contrassegnato per tutta la durata del contratto dalla lettera B. Questo significava che il possessore del documento non poteva essere impegnato che in miniera.
Diventava così praticamente impossibile cambiare mestiere per anni e anche tornare a casa non era facile.
Naturalmente vi erano coloro che avrebbero preferito rinunziare ad un lavoro tanto duro e pericoloso prima della fine del contratto, ma esistevano metodi piuttosto convincenti per frenare le defezioni:

Nel 1948/49 quando venivano qui gli immigrati andavano alla mina, scendevano un giorno o due e, vedendo quanto brutto era il lavoro, rimontavano e chiedevano di non scendere più. Ma non potevano ritornare in Italia: li prendevano (10,15,20 minatori alla volta) e li portavano a Bruxelles, come in un campo di concentramento.
Era una casa dove ti facevano stare 28 giorni, dopo venivano a chiederti hai deciso quello che vuoi fare? E uno si diceva: torno in Italia a fare che?Non ho lavoro, non ho niente… e molta gente tornava in miniera. Hai capito? Ti tenevano un mese in prigione per costringerti a lavorare.

Quando dalla Sicilia, dalla Calabria, dagli Abruzzi o anche dal Veneto, un emigrante partiva, portava con sé il vestito che aveva indosso e poche altre cose. Questo lo faceva essere in balìa delle organizzazioni del lavoro. Se non rimaneva con loro non poteva neanche avere da mangiare.
In Belgio venivano trasferiti in massa al Petit Chateau, un vero e proprio campo di concentramento.

Negli anni ’40 e ’50 coloro che attendevano lì per poter tornare a casa –ufficialmente i tempi di attesa erano collegati alla necessità di raggiungere il numero sufficiente di uomini per giustificare un treno-, non restavano inattivi, dovevano guadagnarsi il loro mantenimento. Pertanto venivano impiegati nella realizzazione di opere pubbliche in città. L’unico salario percepito in cambio del lavoro era costituito dal vitto e dall’alloggio forzato al petit Chateau.




8 Agosto 1956 mattino presto.
Intorno alle sette, dai pozzi di Bois du Cazier cominciano a risalire gli uomini del turno di notte e a scendere quelli del turno del mattino.
Alle otto sono tutti ai loro posti:

1 addetto alle pompe a 170 metri.
27 minatori a 715/765 metri
89 a 835/907 metri
149 a 975/1035 metri
9 a 1100 metri.

Più una trentina di cavalli adibiti al trasporto del vagoncini e distribuiti sui vari livelli.
Il lavoro inizia normalmente e niente fa presagire ciò che accadrà tra poco. Le gabbie degli ascensori salgono e scendono, i martelli pneumatici frantumano le pareti delle taglie, il carbone viene caricato sui vagoncini gli zoccoli dei cavalli rimbombano sotto i soffitti delle gallerie….



Arrivavano in treni su vagoni di terza classe dopo aver viaggiato per giorni 8 per scompartimento e su panche di legno.
Questi prigionieri in vacanza, una volta giunti alla loro destinazione finale, trovavano alloggio nelle cantine o mense dei minatori, spesso gestite da emigranti come loro. Lì cominciavano a indebitarsi per pagarsi il posto letto che comprendeva: un materasso (usato) le coperte e le lenzuola (usate pure quelle) e gli attrezzi per la miniera (una pala, un piccone, un’accetta, un casco di protezione, il contenitore per il caffè). Una volta pagati i debiti, tolto il denaro necessario per assicurarsi il vitto e il posto letto, cercavano di risparmiare il più possibile per offrire il viaggio alla famiglia.
Infatti chi aveva con sé la moglie ed i figli poteva usufruire degli alloggi alle Coron.
Le abitazioni alle Coron avevano una forma semicilindirca, la cui parte curva, tetto e pareti laterali, era in lamiera, mentre le due estremità erano chiuse da muri di mattoni nei quali si aprivano porte e finestre.
Non è difficile immaginare le condizioni di vita all’interno, il caldo torrido quando il sole arroventava la lamiera del tetto e il gelo che nessuna stufa riusciva del tutto a combattere quando, in inverno la temperatura scendeva sotto lo zero.
Le Coron erano spesso luoghi separati dalle città e dai paesi abitati dalla popolazione locale e si trasformavano facilmente in ghetti chiusi, i contatti con l’esterno ridotti al minimo indispensabile.

Quando siamo venuti qua era triste, dicevano, -spaghetti, macaoni, rubate nelle nostre case…-

Naturalmente c’erano anche i Consolati e le Associazioni Sindacali.

Si andava al Consolato e bisognava fare la coda come cani Quando sono arrivato nel ’48 dovevo rinnovare la carta d’identità ogni sei mesi e mi costava 150 franchi, io ne guadagnavo 152…

C’era un’assistente italiana tra i caporali, gente fetente, quando ci hanno dato la colazione si è persino fatta pagare il tè.

Le visite mediche non si facevano solo prima di scendere in miniera, dovevamo subirle una volta all’anno.
Se non eri più idoneo il centro medicale ti poteva anche fermare e dire: -lei domani non scende più-.
Però ti fermavano solo due o tre mesi prima di morire… fino a che non eri pieno fino a qui di polvere…

Data la situazione la famiglia diventava il punto di riferimento primario per questi uomini., risparmiavano tutto quello che avevano per farsi raggiungere il più presto possibile … ricreando uno spicchio del proprio paese natale in una terra straniera e rendendo possibile la sopravvivenza delle proprie tradizioni e della propria cultura.




8 Agosto 1956 mattino presto.
Al livello 975 cominciano ad arrivare dalle taglie i carrelli pieni, alle gabbie vi sono due minatori: Antonio Iannetta e Gaston Vausort, belga. Iannetta parla poco il francese, è arrivato da pochi mesi, perciò è Vausront che risponde al telefono e riceve le direttive dalla superficie. In questo caso gli viene detto che “al giorno” stanno già lavorando con un altro livello, quindi le gabbie che si dovessero fermare a 975 metri non devono essere riempite.
cronologia
Dalla superficie arriva l’ordine di non caricare la gabbia. Vasrount avvisa il collega Iannetta che non obbedisce o forse non capisce. La sua padronanza del francese è molto limitata, forse scambia quel “Non caricare” con qualcosa come “Sbrigati a caricare”. Forse non si dà nemmeno la pena di cercare di decifrare quello che gli viene detto, è talmente abituato a sentirsi dire di lavorare più in fretta, da dare per scontato che le parole del collega sono un’ennesima sollecitazione. Forse, indipendentemente da quanto gli viene detto fa di testa sua, cerca di portarsi avanti col lavoro, lo fanno in molti là sotto.



La miniera è una città sotterranea che si esprime in verticale in modo del tutto speculare ad una città fatta di grattacieli. I pozzi scendono in profondità per centinaia e centinaia di metri, intersecati alle varie quote da gallerie che si inoltrano nel terreno per chilometri. L’attività è continua, si lavora 24 ore su 24 suddivisi in turni.. C’è un gran via vai di ascensori che portano su e giù il personale e i vagoncini, sia quelli pieni di minerale sia quelli vuoti da caricare.
La miniera è un luogo rumoroso, il carbone viene frantumato con i martelli pneumatici ed il loro frastuono si trasmette di galleria in galleria, sommandosi al suono degli zoccoli dei cavalli sulla roccia, allo sferragliare dei carrelli e delle gabbie, alle voci degli uomini, alle bestemmie. …

Benché fatta di roccia viva non è nemmeno un luogo stabile. E’ soggetta a crolli, frane, esplosioni ed all’azione dell’acqua. …


12 Dicembre 1958 in un’altra miniera:
I nuovi piani della miniera non portavano al pozzo chiuso cent’anni prima e in questo frangente di tempo il pozzo si era riempito d’acqua, era da giorni che si lavorava nell’acqua.
In quel tratto della taglia, solo in quel tratto, usciva acqua dal carbone, cioè di lato, dal tetto dal pavimento.
Quel giorno, il 12 dicembre del ’58 un mio collega siciliano che si chiamava Pasquale, mi ha detto: Che ora è?
E io che avevo l’orologio dentro un barattolino perché non si riempisse di polvere gli ho risposto: le undici meno venti. Aveva venti minuti di vita quel poveraccio.
Alle undici precise ci fu un’esplosione, si è allagato tutto. Pasquale è morto perché l’esplosione l’ha preso….

Questo tipo di incidente è molto comune nelle miniere, una sacca di grisou, infiltrazioni d’acqua, vecchie armature di sostegno che possono cedere all’improvviso. I corpi dei minatori si trasformano in mappe viventi che narrano ognuna di questi avvenimenti: ossa fratturate, dita mancanti e, naturalmente cicatrici di ogni sorta. Spiccano sulla pelle come geroglifici indelebili di una lingua morta.

Quando tornavo dalla miniera e prendevo il tram, anche dopo essermi lavato, spesso nella zona degli occhi il nero rimaneva e le donne, vedendomi così si alzavano e se ne andavano… stavano in piedi piuttosto che sedersi vicino ad un minatore.


Parlando di cavalli e vagoncini, si può avere un’idea errata anche degli spazi, ritenendoli più vasti di quanto in realtà non siano. Se è vero che le gallerie principali sono abbastanza ampie –circa tre metri di larghezza per due metri d’altezza-, i cunicoli che portano alle taglie (i punti d’estrazione vera e propria) sono molto più angusti. Le taglie, poi, seguono l’altezza delle vene di carbone e queste vanno dai trenta centimetri al metro e venti. La taglia può distare dal pozzo principale anche dieci chilometri ed essere lunga qualche centinaio di metri. Lì lavorano tra i venti e i trenta uomini, un enorme utero affollato di feti dai volti anneriti.

Quando si lavorava nelle vene più basse, si doveva scegliere se entrare a pancia in giù o, al contrario, con la faccia rivolta verso l’alto. Una volta deciso era impossibile cambiare idea e dovevi rimanere in quella posizione per otto ore.

I minatori, quindi, non camminano, strisciano su gomiti e ginocchia. In questa posizione frantumano, spalano, trasportano carbone. Tutto questo mentre un vento instancabile li schiaffeggia incessantemente e scaglia sui loro volti, polvere, sassolini, detriti… Più è stretto il cunicolo più il vento sarà forte e fastidioso.
Il sistema di ventilazione, in funzione continuamente, deve essere molto potente per arrivare fino in fondo ai pozzi ed ai chilometri di gallerie da lì dipartono. Di conseguenza, il vento sotto terra non cessa mai.
Nelle taglie, lungo i cunicoli, per le gallerie, non era facile trovare un connazionale col quale scambiare qualche parola, anche perché, raggruppare gli uomini per paesi d’origine non era tra le priorità della Direzione della Mina.
Quindi per otto lunghe ore, il minatore si trovava a dover lavorare nella taglia completamente isolato senza capire neanche un segnale, l’avvertimento per un pericolo.
Ci volevano, infatti, almeno sei mesi per imparare, “… una parola al giorno”.

Era terribile sentir parlare e non comprendere una parola di quanto dicevano.. Vi fù chi si trovò davanti al pericolo e non potè evitarlo perché non capiva quelle grida che gli dicevano di fuggire dalla frana.




E’ a questo punto che succede qualcosa d imprevisto. Quando la gabbia dell’ascensore arriva al suo livello, Iannetta comincia a stiparvi dentro i vagoncini; uno di questi si incaglia e, mentre il minatore sta tentando di disincastrarlo, la gabbia parte all’improvviso ed il vagoncino, ancora sporgente, strappa tutto ciò che trova sul suo passaggio: cavi elettrici, fili del telefono, condotte dell’olio e persino le guide dello stesso ascensore. Saranno proprio le guide divelte a bloccarne la corsa. In pochi secondi tutto quello che era alloggiato all’interno del pozzo viene sradicato, le scintille causate dall’attrito del metallo sul metallo, entrando in contatto con l‘olio innescano l’incendio.
Cronologia:
Carica all’insaputa del macchinista che, quando il personale di superficie ha finito di scaricare i vagoncini giunti dal livello 765 (quello con cui stanno lavorando in quel momento), in perfetta buona fede, aziona l’argano facendo partire anche la gabbia ferma a 975 metri, con il suo carrello ancora incastrato, provocando il cassage.
Secondo la testimonianza di Iannetta, Vausront va al telefono mentre le operazioni di carico sono già cominciate. Forse dalla superficie si sono dimenticati di avvisare il livello 975 che la gabbia deve restare libera, forse se ne sono accorti solo dopo che Iannetta aziona la campana per far salire l’ascensore di un piano. A quel punto sono corsi al telefono e, non immaginando che un carrello fosse rimasto bloccato, hanno ordinato a Iannetta di interrompere il lavoro, riprendendo poi il lavoro che stavano svolgendo.


In ogni pozzo di estrazione vi sono due ascensori a più piani, comunemente detti gabbie. Funzionano con un sistema a bilanciere per cui, quando una gabbia sale, l’altra scende. Discesa e risalita sono gestite da un macchinista in superficie il cui compito consiste nell’azionare un potente argano a bobine al quale sono collegati entrambe gli ascensori.
Il macchinista non può sapere a che punto sono le operazioni di carico all’interno dei pozzi, senza un sistema di comunicazione il più possibile veloce e funzionale, e infatti il fondo comunica con il giorno attraverso un sistema di suonerie. Per chiamare un ascensore o per avvisare che questo è pronto per la risalita oppure per farlo risalire di un piano alla volta, fino a quando tutti i vani non saranno riempiti, il personale del pozzo usa queste campane secondo un codice prestabilito.

Quando al giorno, l’ascensore carico di carrelli vuoti viene fatto scendere al livello desiderato, l’addetto alle gabbie provvederà a sostituirli con quelli pieni di carbone che arrivano direttamente dalle taglie.
L’addetto alle gabbie provvede a far combaciare il piano dell’ascensore con la pavimentazione della galleria attraverso un equilibratore idraulico poi, spingendo all’interno il carrello pieno, quello vuoto esce automaticamente dall’altra parte.
Naturalmente un vagoncino può incastrarsi senza riuscire ad andare più né avanti né indietro. Sono contrattempi banali, succedono spesso e, in teoria, sono facili da sistemare. L’addetto alle gabbie non deve fare altro che rimuovere l’ostacolo e disincagliare il vagoncino prima di dare il via libera alla superficie per far rimontare la gabbia.


In questo caso, però, l’ascensore è partito all’improvviso, senza aspettare il via libera, senza dare a Iannetta il tempo di disincastrare il carrello.


Ipotesi, supposizioni, non vi è niente di certo su quel che accadde quel mattino. Grazie ad autorità che avevano troppa fretta di chiudere il caso ed a un processo che non ha fatto nessuna chiarezza.
Indagini approfondite avrebbero messo a nudo la totale mancanza di sistemi di sicurezza all’interno delle miniere, e condizioni disumane in cui i minatori erano costretti a lavorare ed avrebbero creato un pericoloso precedente, considerata la frequenza con cui gli incidenti si verificavano.
Ancora oggi i familiari delle vittime attendono una verità ufficiale che non è mai arrivata né dal Belgio né dall’Italia



Ore 8 del mattino.
Un attimo dopo ho visto che scendeva fumo, fiamme, scintille… Sono scappato dall’altra parte dell’altro ascensore nello stesso tempo il mio amico che lavorava con me è scappato dietro i vagoni vuoti…

Nelle gallerie si fa buio all’improvviso (si spengono le luci). L’incendio, alimentato dallo stesso carbone di cui è fatta la miniera infurierà senza trovare ostacoli. Le porte taglia-fuoco, essendo di legno (!!!) non potranno contrastarlo e il fuoco si diffonderà in pochissimo tempo al secondo pozzo –distante dal primo solo 27 metri – bloccando l’unico ascensore ancora in funzione.
Il fumo si propaga molto più velocemente delle fiamme e raggiunge anche i livelli non ancora interessati dall’incendio.
I minatori che raggiungono gli ascensori per tentare la risalita scoprono che entrambe i pozzi sono bloccati.
Un ascensore bloccato, l’altro irraggiungibile.
Chi prova a chiamare la superficie si trova tra le mani un telefono muto.
Ognuno cerca scampo come e dove può. I più cercano di ripararsi nelle gallerie più interne, incalzati dal fumo, dal calore, sempre più intenso, dai primi crolli.
Alcuni cominciano a correre di qua e di là in preda al panico, altri sono letteralmente bloccati dalla paura e non sono capaci di muoversi, altri ancora mantengono la calma e trovano un rifugio, anche precario, che li protegga temporaneamente dalle scintille e dalle frane.
Tutti sono comunque certi che i soccorsi non tarderanno ad arrivare.

Ed infatti le operazioni di soccorso sono già cominciate.
Al giorno si sono accorti che qualcosa non andava, qualcuno uscito pochi minuti prima dal fondo è andato ad avvertire la direzione proprio mentre si verifica l‘esplosione.

Testimonianza fuori testo:
Alle 7 circa del mattino sono sceso con il turno mattuttino fino al livello -850 metri.
Sono stato pregato dai miei compagni di riferire alla Direzione che avevano bisogno di più aria per respirare meglio (l’aria veniva pompata giù dalla superficie). Se sarei riuscito nell’intento mi sarebbero stati davvero grati, anzi mi avrebbero fatto un monumento.
Sono risalito quindi in superficie intorno alle 7.30.
Nella risalita ho avuto la sensazione che la gabbia dell’ascensore facesse attrito ogni tanto con qualche cosa provocando anche alcune scintille. Mi ricordai che qualche giorno prima anche altri minatori parlavano di questi attriti nella risalita della gabbia. Pensai non fosse una cosa normale che in una miniera ci fossero scintille….
Arrivato in superficie mi recai subito negli uffici della Direzione della miniera e ho esposto i problemi di quella mattina (più aria sotto in miniera e le scintille dell’ascensore). Sa quale fù la risposta che ottenni (soprattutto riferita al problema dell’ascensore): Stieltjes, impicciati degli affari tuoi!!! Le scintille saranno un semplice contatto tra la gabbia e le guide dell’ascensore che non influiranno minimamente sulla sicurezza!
Fu in quel momento (alle 8.10) che sentimmo una forte esplosione sotterranea e l’impressionante colonna di fumo che usciva dal pozzo 22…
Io da quel pozzo ci ero uscito circa mezz’ora prima…
A tragedia avvenuta come arrivò la notizia in superficie? Cosa successe nei minuti successivi alle 8.10?
Guardi, ci sono stati attimi di smarrimento. Minuti nei quali non si sa cosa fare, da dove in iniziare.
Si chiamarono i soccorsi… Arrivarono le ambulanze… Ma per fare cosa? Dove erano i feriti?
Dopo il primo smarrimento ricordo di essere andato via dagli uffici e poi dalla miniera.
Era successo una cosa spaventosa che sarebbe stata ricordata come la “tragedia mineraria di Marcinelle”.
Ho perso in un solo momento tutti i miei amici di lavoro e da allora vivo nel loro ricordo.

Sig. Stieltjes, responsabile delle comunicazioni tra i minatori e la direzione (interprete).



I pompieri mettono subito in funzione gli idranti per tentare di spegnere il fuoco dalla superficie e gli ingegneri stanno studiando il modo per scendere a fondo nella carboniera.
Si fa un primo tentativo di utilizzare il pozzo per l’entrata dell’aria ma è un lavoro lungo, ci vogliono ore per mettere in funzione un ascensore quando l’altro è bloccato.

Quando, finalmente una squadra composta da tre uomini può tentare la prima discesa, scopre di non poter andare oltre il 170 metri di profondità a causa dell’enorme calore che si sprigiona dall’interno del pozzo.
Si tenta un’altra possibilità. Poco più a Sud dei due pozzi in fiamme ve n’è un terzo ancora in costruzione; gli ingegneri, studiando le planimetrie della miniera hanno individuato una galleria in disuso che può essere usata da collegamento tra il nuovo pozzo e gli altri due. Nessuno sa che quella galleria è ostruita da un muro spesso un paio di metri – costruito, pare, per motivi di sicurezza-, e che l’unica via d’accesso è un passo d’uomo del diametro di circa 30 centimetri.
Impossibile passarvi, impossibile allargarla.

Ai cancelli si è andata ammassando una folla enorme, che attende notizie dei familiari intrappolati nelle gallerie del Cazier.
Sul piazzale della carboniera si accalcano giornalisti e fotografi, ma anche ambulanze della centrale di soccorso e anche un distaccamento dell’esercito, tutti pronti ad intervenire con la massima tempestività non appena si cominceranno ad estrarre i primi feriti.
Passeranno l’intera giornata oscillando tra paura e speranza, ma tenendo ancora ben lontana la disperazione.

Nel pomeriggio altri sei minatori usciranno vivi dalla bocca del Cazier, sommati a quelli risaliti subito dopo l‘incidente, a fine giornata si conteranno tredici superstiti in tutto.


Duecentosessantadue uomini (tra cui 7 ragazzi minorenni) sono ancora prigionieri all’interno della miniera.

In serata giungono al Bois de Cazier le più alte cariche dello stato belga, l’ambasciatore italiano e lo stesso re Baldovino. Saranno anche gli unici ai quali verrà confessata la verità: le speranze di trovare altri superstiti sono scarse se non addirittura nulle.
Intanto l’Italia che fa le prove generali di quello che sarà il boom economico e si prepara a consumare le sue prime “feriediagosto” , si blocca nelle salette dei bar, avanti ai televisori comperati dal gestore col sistema del “lungo respiro” sperimentando per la prima volta il dramma in “presa diretta”.

Il 9 agosto i tentativi di scendere ai livelli più bassi della miniera proseguono incessantemente.
L’incendio è scoppiato a circa 900 metri di profondità e fino ad ora non ha permesso alle squadre di soccorso di scendere oltre gli 835 metri.
Vengono battute palmo a palmo tutte le gallerie ma, a parte pochi superstiti trovati il giorno prima a quota 765, non vi è traccia di sopravvissuti. Vengono rinvenuti soltanto cadaveri, perlopiù uccisi dal fumo o dall’ossido di carbonio.
Quando finalmente viene raggiunto il livello 907, i soccorritori trovano la strada sbarrata dal calore ancora troppo intenso e dalle frane che continuano a susseguirsi e non possono proseguire.
10 agosto. Passano altre 24 ore. Frane, fumo e calore continuano a rallentare i soccorsi. Alle dieci di sera il livello 907 viene finalmente raggiunto e in parte esplorato. Ma l’unica notizia che i soccorritori portano in superficie è che l’aria in quel livello è respirabile.
Nei giorni successivi si recuperano soltanto cadaveri, non si fa alcun progresso sul fronte dell’esplorazione di quelle parti di miniera che ancora non sono state raggiunte.
13 agosto. In serata viene diffusa la notizia di altri 80 morti rinvenuti al livello 835.
Si arriva così al 17 agosto senza che un solo sopravvissuto venga ritrovato, eppure la direzione della carboniera continua a rilasciare comunicati rassicuranti.

Accanto alle autorità schierate in prima fila c’è l’intera popolazione della cittadina che, lasciati da parte i contrasti dovuti ad una spesso difficile convivenza, si stringe nel lutto. Quello, almeno è privo di nazionalità e ha lo stesso colore per tutti.

Le operazioni di soccorso non sono rese difficili soltanto dalle frane, dal grisou e dal fumo, ci sono i corpi di 30 cavalli e di un numero ancora imprecisato di minatori che si vanno decomponendo nelle gallerie. L’odore è intollerabile, alcuni vomitano nelle maschere dei respiratori senza tuttavia poterle togliere –il rischio di asfissia è tuttora altissimo-, e semi-incoscienti vengono riportati in superficie dai loro compagni. Il tempo di riprendersi e scendono nuovamente.

Il 22 agosto, nella notte, la squadra dell’ultimo soccorso trova finalmente un passaggio per il fondo della miniera. Quando gli uomini sbucano nella galleria, trovano soltanto silenzio. Non c’è il disordine di una fuga impazzita, non ci sono frane o crolli visibili, non c’è fuoco; solo la quiete immobile di un luogo abbandonato.

Da quel momento in poi non si parlerà di operazioni di soccorso ma di operazioni di recupero.
Man mano che i resti dei minatori vengono riportati al giorno dopo la terribile incombenza dell’identificazione, i parenti delle vittime lasciano i cancelli, la folla si assottiglia, gli ultimi giornalisti se ne vanno.
La Croce Rossa lo farà il 19 settembre,
Il 28 verrà ostruito il pozzo dell’aria nel tentativo di spegnere definitivamente l’incendio.
Il 17 dicembre il Cazier restituirà le sue ultime vittime, ma a quel punto di Marcinelle non si parla quasi più, queste notizie non sono altro che brevi trafiletti nelle pagine più interne di qualche quotidiano.


Lì sotto c’era un padre di famiglia che aveva due figli -14 e 18 anni-, loro facevano la scuola come ingegneri della mina. Lui ha detto ai suoi figli: “Venite con me perché ho parlato con l’ingegnere e mi ha dato il permesso di farvi scendere a vedere le vene del carbone”.
Quel giorno si era portato dietro i figli.

Il 22 agosto, nella notte, la squadra dell’ultimo soccorso trova finalmente un passaggio per il fondo della miniera. Quando gli uomini sbucano nella galleria, trovano soltanto silenzio.
Si procede lentamente, con attenzione fino a quando la squadra trova una porta taglia-fuoco chiusa sulla quale è stato inciso un messaggio;
“Fuggiamo davanti a fumo. Siamo una cinquantina e andiamo verso la taglia Quattro.
11.15
Gonet”

Gonet era il caposquadra padre di Willy e Michael . Quel girono, dopo essersi reso conto di quanto stava accadendo, aveva guidato i suoi uomini verso il punto che riteneva più sicuro, chiudendosi le porte taglia-fuoco alle spalle.
Queste, di legno, non sarebbero servite a molto contro l’incendio ma, pensava, avrebbero protetto i cunicoli più interni dal fumo.
I soccorritori si rianimano: se quegli uomini dopo più di tre ore dallo scoppio dell’incendio erano ancora vivi e se hanno trovato un luogo sicuro, potrebbero avercela fatta…
Si lanciano lungo la via indicata dal messaggio, nella speranza di cogliere un grido un lamento, un qualsiasi rumore che potesse indicar loro la presenza di sopravvissuti.
Dopo una cinquantina di metri la galleria fa una svolta e, poco più avanti, quasi inciampano in un gruppo compatto di minatori –e due ragazzini-, rannicchiati gli uni contro gli altri, quasi abbracciati tra di loro.
L’ossido di carbonio li ha uccisi pochi minuti dopo aver lasciato il loro ultimo messaggio, mentre ancora correvano in cerca di un rifugio.
Fulminati senza nemmeno rendersene conto.


E' stato un tempo il mondo
giovane e forte,
odorante di sangue fertile.
Rigoglioso di lotte, moltitudini,
splendeva, pretendeva molto.
Famiglie, donne incinte, sfregamenti, faccie, gambe, pance, braccia.
Dimora della carne, riserva di calore,
sapore familiare, odore.

E cavità di donna che
crea il mondo, veglia sul tempo lo protegge.
Contiene membro d'uomo che,
s'alza e spinge, insoddisfatto poi distrugge.


Il nostro mondo adesso è debole e vecchio,
puzza il sangue versato infetto.
Povertà mangànìma, malaventura,
concedi compassione ai figli tuoi.


Glorifichi la vita e
Gloria sia!
Glorifichi la vita e
Gloria è.

E' stato un tempo il mondo giovane, forte, sorride confidente il giovine guerriero, in una vecchia foto. tra le mani una treccia.
Ora, cranio rasato, celebra la sua prima sconfitta.

Prezioso,
il luogo, il tempo,
dovuto al Silenzio!
Qua. Ora.
Io taccio.

(CSI tratto dall'album: Noi non ci saremo)

martedì 24 aprile 2007

DOMENICA SERA VERSO SUD


Domenica sera, verso Sud

E’ buio la domenica pomeriggio di un autunno insolitamente freddo.
Fuori piove e c’è vento.
La vecchierella si affretta a sparecchiare, a lavare i piatti e riporre bicchieri e posate buone nella vetrinetta dai vetri opachi. I figli i nipoti e i loro fidanzati sono venuti da lei, come ogni domenica.

Si sono messi a tavola nella sala da pranzo e, come al solito, hanno parlato tra di loro, ridendo e scherzando o dicendosi cose importanti e serissime che lei non afferra completamente. Ma capisce il senso, le arrivano le alleanze e le antipatie.
Giungono in gruppo, mangiano, discutono, si rivolgono a lei sorridendo e poi all’improvviso se ne vanno via. Tutti insieme, dopo aver adempiuto al loro dovere.
Quando le parlano sono affettuosi e gentili, specialmente i bambini ma nessuno le chiede cosa sta pensando e cosa vuole, di che ha paura e cosa desidera. La notte come dorme e che sogni fa.

Ma lei è contenta.
Li vede uniti, frequentarsi, crescere insieme figli e nipotini, la sua casa si riempie una volta alla settimana poi piomba nella solitudine più assoluta.
Lei, gli animali della fattoria, i tempi della campagna ancora più impegnativi della fabbrica, senza riposo, nemmeno la domenica; le foto dei suoi parenti e il ricordo di suo marito.

E poi c’è la chiesa
La domenica pomeriggio, andati via i figli, lei rimette tutto a posto, lava per terra poi chiude la camera da pranzo e si prepara.
Vestito nero, scialle del pellegrinaggio, il Rosario, il Librettino e si affretta per le stradine deserte e spazzate dal vento verso la Messa delle sei.

Entra e siede sola sulla sua panca e aspetta pronta.
Quello è il momento in cui parla con Dio.
Gli raccomanda i suoi tanti anni, il figlio che non riesce a vedere sistemato, gli offre le fatiche, il ricordo del marito e poi si perde abbandonandosi al pensiero di come sarà il futuro della sua vita quando questa sarà finita. E’ un dialogo tra i suoi segreti e un altro Dio.. Nessuno può più dirle come deve rivolgersi a Lui e nessuno saprà cosa si sono detti e neanche lei quando sarà ritornata nella chiesa dove adesso siede il suo corpo, in attesa di lei.

Le candele sono tutte accese e le luci laterali già dicono della Festa che si consumerà appena entrerà il Celebrante. Il fortissimo odore di incenso giunge fino a lei spinto dal vento…
E’ il vento che porta una novità.

Da un punto dietro l’Altare Maggiore arriva una strana musica, nuova. Le ricorda vagamente una canzone che cantavano alle feste del raccolto quando era ragazza. Si sforza di collegare quelle parole all’immagine di lei che ballava con un uomo dal bello aspetto e dai modi cortesi col fazzoletto rosso annodato in gola.
E’, Sembra, Non è ma è proprio, Come se fosse
La tarantella del Gargano!!!! Sìì è quella!! E nel suo ricordo passano tutte le note e le voci, i versi. Questa non è Lei ma ha qualcosa di Lei.
Confonde e poi unisce le immagini di sé stessa che balla nella piazza del paese e della canzone e Lei diventa canzone.
Ma questa viene direttamente dal vento e porta delle sonorità sconosciute. Comincia con un qualcosa di arabo e di remoto. Un ticchettio sempre più veloce e vicino e poi parte con un giro di basso e dei timpani.
Poi la voce che arriva direttamente dal Cielo. E’ il soffio di Dio, se solo Dio fosse femmina.

Di rose t’haia fari nu bellu ciardini

Il ritmo del basso e delle percussioni rimane costante ma entrano continuamente nuovi strumenti stravolgendo il suono che lei ricorda bene adesso. Quindi si perde e si ritrova nei suoi ricordi e comincia ad immaginare un dialogo tra Santi, le cui immagini sono raffigurate ai lati della chiesa.
Improvviso uno squillo altissimo di trombe, tre note, mentre la bella voce continua a raccontare cantando con dolcezza immutata e il basso gira insieme alla batteria –che lei non riconosce-.
Uno squillo acuto di tromba annuncia la presenza stessa di Dio e lei si trova, vestita di nero e seduta sulla sua panca, Lei ragazza, ballerina sulla piazza principale alla presenza dell’Altissimo.
Poi cambia tutto e diventa una improvvisazione Jazz con suoni che non conosce e dove si perde.
Ci cammina dentro, come in un giardino segreto. Si ferma.
Pensa a un discorso tra loro che non può e non deve capire ma che ha il privilegio di ascoltare, quindi si dispone a un attento “sentire” . Sono tanti strumenti che suonano insieme e immagini che cambiano continuamente avanti ai suoi occhi. Le sembra di avvertire il ruscello che scorre, poi improvviso un cenno di flauto che le mostra il primo uccellino primaverile –ancora avvolto nel gelo- e ogni tanto il ritorno al tema principale della tarantella con la voce femminile che continua ininterrotta a recitare i versi della antichissima canzone.
C’è un costante perdersi e ritrovarsi e la vecchierella si sente seduta in chiesa ma si vede, lei stessa –ragazza- ballare e passeggiare per il parco più bello che la sua memoria ricordi.
Il basso adesso è potente, sottolinea la gravità del dramma che ora sta vivendo e ora sta osservando.
Poi dal lato opposto un suono di trombe, ma in nota di basso, mette tutti in allerta.
Il diavolo ha fatto la sua apparizione.
Adesso non c’è più tempo per la melodia e per lei, adesso sono tutti gli strumenti che suonano mentre la voce tace. Ognuno combatte la sua battaglia sonora e a lei arriva l’effetto stereofonico di un’orchestra di suoni che nell’insieme hanno qualcosa di altamente melodioso ma che le sfuggono. Ascolta seduta sulla sua panca, mentre lei ragazza si nasconde dietro un albero del giardino celeste che sta percorrendo.
E la vecchierella e la ragazza guardano.
La battaglia è feroce e velocissima; un orchestra si coalizza contro la presenza maligna e fuori tono e ben presto un solo paio di note di organo ha il sopravvento sugli strumenti tutti che piano piano si dileguano. Le due note proseguono ossessive, sottolineate dal basso e dal piatto, e salgono di volume e velocità, rimanendo le stesse.. Il ritmo è talmente alto che si rompe, come un bicchiere infranto, in un punto preciso alla destra dell’Altare Maggiore, vicinissimo alla croce.
Il Diavolo è lontano.

C’è un solo istante di silenzio poi un sottile timpano e di nuovo la sensazione dell’uccellino che ritorna, quindi timidamente si reintroducono tutti gli strumenti.
In un attimo ritorna l’Angelo e riprende la melodia della vecchia tarantella. La ragazza esce dal nascondiglio e comincia a ballare lieve su un pavimento d’aria, la voce la porta.
Le trombe alte segnalano che Dio ha ora lasciato quel Congresso.
La musica continua, ma ad ogni giro con un tono minore fino ad esaurirsi quasi e poi a spegnersi con un lontano suono di timpani.
Sempre più lento, sempre più lontano mentre l’immagine così nitida della ragazza diventa sfocata nella mente della vecchierella.
Rimane la foto di suo marito, che lei conserva sul comodino e nel suo cuore. Un uomo alto ed elegante, mentre faceva il contadino, che parlava bello e dall’incedere galante.. .


M’n’ha fatt nnammurà la camminatur e lu parlà
M’n’ha fatt nnammurà la camminatur e lu parlà

Si bell’ tu non c’iri n’ammurà nun me facive



Qualcuno ha lasciato la doppia porta aperta e il vento ha portato verso la vecchierella suggestioni antiche e memorie che arrivano direttamente dagli alberi che vivono a testa in giù e nel periodo autunnale, tutti sanno, sono custodi di segreti e pensieri remoti e cose dell’anima.
Quindi riemerge dalla sua preghiera segreta; la chiesa si anima. Entra il celebrante.
Ad un cenno si alza in comunione con le altre e –frettolosa- si segna col Segno della Croce.






COL. DOUGLAS MORTIMER













Quest’ immagine me l’ha ispirata la versione di Daniele Sepe della Tarantella del Gargano.

Ahoooooooooooo!!!!!

Che succede? scrittori, scrittrici, scrivani, scribacchini, scrivanie, scriventi, scri....... che c'avete? state scarsi a idee? e qui non scrivacchia più nessuno........che d'avemo da fa? piuù in la? ma dove và? più non si sà! E perdinci e perdindirindina!! mi rivolgo anche al nostro Colonnello che sembrava il più prolificante dei nostri scrittori......non sarà mica impazzuto improvvisoriamente! E i Gran.... che fine avite fatto???? In special popodichè il Gran Maestro australopiteco che deve da fa piuù in la ma dove và più non si sà, li dolloroni pe comprà sta benearmata isola!! Ahooooooooooooooooo! ma ve volete scetàààààà!
Attendo vostre maleparole, purchè siano parole.... in questo blogghe pochi fatti e molte parole, aZZò!! no me fate inalberà! che mi si alterano i cromosomi, mi girano i girasoli e la pannocchia sbuffa!!!

lunedì 9 aprile 2007

NOMI


NOMI

Presidente “Cosa ne sapevi del 1° maggio?”
Bambino di 14 anni: “Era una bella festa”
Presidente: ”Hai visto cosa succede ad andare alle feste?”
Il mio nome è Castrenze Ricotta, sono un sopravvissuto a Portella della Ginestra.


Il mio nome è Anìma, finisco tra poco il liceo e una volta sono stata in una residenza universitaria della mia città. Era una sala studio e c’erano tante ragazze-ròbot della mia età, sole, dritte sulle loro sedie con un cono di luce che partiva dagli occhi e raggiungeva il rigo del libro che stavano inserendo nel loro cervello (operazione di input).
Erano ferme, serie, e comprese nel loro lavoro di inserimento di dati.
D’improvviso mi sono alzata in volo e ho danzato, sull’onda di una musica araba muovendo i fianchi e spogliandomi piano al ritmo lento e sensuale delle note del flauto. Cadevano veli sulle teste e sulle scrivanie.
Nessuna di loro ha fatto il minimo movimento. Semplicemente, con le matite in bocca, guardavano silenziose. Nessuno stupore nei loro occhi.


Mi chiamo Giovanni, sono il tasto nero del pianoforte, la nota troppo alta, il tono di basso.
Vivo in una bellissima casa verso Varcaturo, ho una macchina potente e decappottabile, una moto di grossa cilindrata, amici, piscina, una dona bella e giovanissima, vestiti e tanti soldi da spendere nei locali notturni e ai ristoranti.
Ogni tanto ricevo una telefonata. Allora chiamo gli altri tre, prendiamo due moto ed andiamo a fare il nostro lavoro. Abbiamo abiti neri e scarpe da ginnastica, caschi integrali e non chiediamo mai chi è e che fa l’obiettivo. Come gli va in questo periodo con la moglie, quante sono ancora le rate per riscattare la macchina nuova, per risolvere il mutuo e nemmeno vogliamo sapere che programmi ha per il sabato sera o quali le sue preoccupazioni più spicciole.
Non ci interessa.
Siamo disoccupati!
Arriviamo nell’ombra, scendiamo dagli scooter mentre gli altri sono ancora in sella; i motori accesi, i fari spenti. Silenziosi e bui raggiungiamo l’obiettivo.
Poi un lampo.
Il movimento è strano e l’espressione è sempre di stupore al primo sparo.
Poi una sequenza veloce e il corpo dell’obiettivo che si contorce, come in una danza che dirigiamo noi, col tono alto delle nostre pistole.
Poi il silenzio, il corpo che perde sangue come una fontana rotta e l’odore forte nell’aria.
I nostri stivali si sporcano di quell’impiastro ematico di colore rosso chiaro, quando ci avviciniamo all’obiettivo. Il corpo si muove frenetico e lo sguardo cerca aiuto e lo chiede a noi.
Chiudo sempre gli occhi quando da vicino sparo l’ultimo colpo.
Poi fuggiamo verso le moto. L’ombra ci porta via.
Più tardi, cambiatici ripassiamo come spettatori e un brivido mi torna nella schiena quando mi avvicino al capannello di gente che guarda curiosa i rilievi della Scientifica.
Mi sento forte, invincibile, onnipotente. So di aver fatto bene il mio lavoro e ho la sensazione che qualcuno sarà contento di me. Mi sento bene.
Meno di una settimana dopo sono alla concessionaria per la permuta con l‘ultimo modello, versione cabrio.

Sono Alice, una bambina. Ho il naso schiacciato sul vetro della Panda e guardo il mondo; Napoli. Sto tornando a casa dalla Cappella San Severo, il Paese delle Meraviglie.

Il mio nome non conta. Tutte le sere di primavera, apro il chiosco di taralli con il pepe nero a via Caracciolo, di fronte agli chalet. Mio marito più avanti ha le mani che sanno di limone e vende trippa. Ho un televisore piccolo a batterie con l’antenna retrattile. Il sabato sera vedo gli spettacoli di Rai Uno e mio marito le partite.
Fuori allo chalet, il motorino ultimo modello, verde metallizzato di mio figlio….
Ahh! Che soddisfazione!
“Dottò, vi faccio la solita busta e vi portate i taralli sopra alla barca. Ma quanto è bella stà muglier’ vosta”


“E t’agg’itt mille vote che nunn’è muglierema,e tua cchessta nun gli’hia manco verè e tu fai avverè ca nù capiscè e overo?!”
La domanda e retorica, poi prende i taralli e va via.
Giovanni il disoccupato, con la bionda spogliarellista del Lido 21 tutto vestito di bianco mentre lei è leopardata e abbondantemente esposta, passa coi taralli e la figona tra la gente sul Molo Luise, poi sale sulla sua barca e si mangna i taralli ‘nsogna e pepe di quella vecchia zoccolona che non si fa i fatti suoi.
Da un momento all’altro arriva la telefonata.

Io mi chiamo Giacomo. Ci ho messo tre anni per comprarla e altrettanti per ristrutturalra. Ho lavorato da solo ogni martedì (che ho il girono libero a scuola) e tutte le domeniche.
L’ho presa all’asta, sottraendola a un camorrista.
Adesso, dopo aver curato le mie rose, posso permettermi di spostare la sedia fuori al mio “monolocale” nel porto turistico della città balneare. Mi siedo col giornale che fa da filtro, e mi godo i rumori, le voci di richiamo, le musiche e gli odori di una domenica mediterranea, che ha sapore di Grecia.
Qualcuno si affaccia alla finestra e grida un nome di donna.
“Uè professò, buoggionno! Anche oggi qua? Più tardi vi mando a Nicolino per quel compito di matematica…”
“Vabbuò ma stasera, adesso vengono ll’amici. Comunque sempre a Vostri Comandi, Onn’Amà”
“Uh! Che dite? Preghiere…”
Mia moglie sta pippeando il ragù.
Domenica mattina, aprile.
Più tardi ci raggiungono amici dalla città e porteranno le pastarelle di Scaturchio.
Forse dovrei cambiare i sottovasi.
Un articolo mi assorbe, entro nel profondo della lettura e non sento e non vedo più niente.
Poi alzo gli occhi dal giornale. “Chi sono questi due vestiti di nero e coi caschi integrali e che
Un lampo


Neanche il mio nome conta, ma conta che sono il papà di Alice. Siamo rimasti soli, mia moglie se n’è andata per una malattia improvvisa. A volte, per farla divertire mi travesto; metto gli abiti di mia moglie e mi presento da Alice. Alice mi guarda, mi tocca e ride. Poi lo sguardo esce fuori sulla terrazza, va verso la barche di Mergellina e poi vola leggero, come una vela sopra il mare, verso Sorrento.



E’ piena di sole la mattina del primo maggio 1947, la guerra è alle nostre spalle e ci stiamo riorganizzando. Mamma prepara in cucina dalle cinque di stamattina (sono frittate e panini, poi torte per noi e per gli altri e le nostre paste siciliane). Papà si mette il vestito buono, quello leggero marrone, lascia la camicia aperta e gira il colletto sulla giacca, il fazzoletto bianco in tasca e tanta colonia.
Io sono già vestito e mi diverto a guardare. Guardare mi piace e quando c’è qualcosa di nuovo e di insolito mi blocco e cerco di assorbire ogni minimo dettaglio e ogni sfumatura di quel nuovo che sta capitando avanti a me.
Ci vengono a prendere altri contadini e tutti andiamo a fare la scampagnata del 1° maggio in un posto bellissimo.

Mi chiamo Tore e sono il luogotenente di Salvatore Giuliano. Sabato è arrivato tutto preso da un grande segreto. Mi ha detto che era fatta, che gente dell’America gli ha dato precise istruzioni. Non ha detto di più ma sono giorni che facciamo sopraluoghi sul Monte Cometa, sopra la piana della Inestra.
E’ il luogo ideale per un tiro a segno. Una valle verde e queste ginestre selvatiche fiorite di giallo che continuano nella campanule che escono spontanee sul prato alto...
Siamo lì da ore, appostati dietro le rupi bianche. Io attendo il segnale di Salvatore poi darò l’Inizio della mattanza.
Non mi piace sto lavoro ma nù teng’ alterntive. Disoccupato sono da troppi anni.

Anch’io salgo su quel carretto. Sulla via di Portella della Ginestra se ne uniscono a noi altri. Di bambini ce ne sono ancora pochi ma altri arriveranno. Ci sono invece chitarre,fisarmoniche e scacciapensieri, uomini vestiti a festa e donne allegre che si salutano e si danno la voce.
Arriviamo alla Chiana, lasciamo i carretti e trasportiamo i cesti. Ci sono cose buone; frutta, dolci, mandorle, salumi pane, ricotta, vino, sciroppi, aranciate e limonate fredde e blocchi di ghiaccio.
Il Monte Cometa e la Pizzuta sono splendenti per i raggi bianchi che si riflettono sulle rocce carsciche.
Da poco è finita la guerra e dopo aver pianto. tanto i nostri morti questo è uno dei primi giorni di felicità. Mi avvicino a mia mamma e lei mi accarezza mentre parla con una sua amica. Si dicono le ricette per la ricotta dei cannuoli. Alzo lo sguardo e vedo i suoi lineamenti distesi e i suoi occhi brillanti e lucidi di emozione.
Ho un brivido caldo che mi passa per la schiena e una sensazione di tepore e di benessere, come sotto ad una coperta tiepida.
Ha un vestito aderente e nero con dei disegni simmetrici bianchi Nella controluce si vede il pizzo della sottana e la piega perfetta, all’altezza del ginocchio, delle sue magnifiche gambe. Papà lo dice sempre che l’ha sposata per questo.
“Poco cervello e tante cosce” dice ridendo e sento la sua risata mentre si allontana ripetendo la nenia. Allora corro da lei e le abbraccio le gambe.

Mi allontano, vado a giocare con i miei amici.


Salvatore Giuliano fa il gesto. Prendo tutto il tempo che mi occorre, miro, scelgo, punto, poi alzo la mano. Siamo tanti, spariamo. La gente è sorpresa, poi grida, poi fugge. I cavalli al tiro impennano, la gente grida più forte, fugge ancora. Corrono tutti da una parte poi di lì arrivano altri spari, quindi tutti dall’altra. Sul prato rimangono corpi senza vita e macchie di rosso.
Sparo.

Spari. Persone che cadono come birilli e rimangono a terra in strane posizioni e circondate da aloni rossi. I cavalli impazziscono e mia mamma fugge con gli altri e grida il mio nome. L’unico pensiero. Devo andare. Ma lo stupore mi blocca. Assisto fermo allo spettacolo immenso di questa mattanza. Voglio coglierne il senso attraverso i particolari, gli odori, le pose buffe delle persone per terra, i cavalli impazziti, le grida di tutti, il mio nome nel vento e nella disperazione di lei, mio padre con la giacca buona sporca di sangue che non si muove da terrr

Quel bambino è lì immobile, un bersaglio facile. Quanto varrà un bambino per quelli della banda Giuliano? e per i Baroni latifondisti? E per gli Americani?
Lo so che non devo e proprio per questo punto.
Sono disoccupato.
Al cuore, alla fronte, al petto.
Sparo.

Mio padre a terra, buffo fagotto sporco di sangue e io che non riesco a muovere un passo e penso al suo vestito buono che è tutto rovinato e a come farà mamma a rammendarlo quando torneremo a casa.
Un lampo.
Poi nero. Silenzio.
E vento.
--------

Sono Luna, una ragazza torinese e studio il secondo dopoguerra. Dicono che lì giù in Sicilia dei mafiosi hanno sparato a braccianti agricoli in festa una bella mattina del 1° maggio 1947.
Sono Mario, faccio il meccanico, riparo motorini e di questa cosa non so niente.
Sono Alfonso studente intervistato. Perché dovrebbe colpirmi questa cosa, che ha di diverso dalle altre? E poi lì giù si uccidono tutti i giorni”
Sono Anna, la vedova di Giacomo. Francamente non me ne frega niente, penso alle rose e alla lezione di matematica sospesa di Nicolino e tanto mi basta.
Mi chiamo Giuseppe e la domenica mattina porto secchio, spugne e sapone dei piatti e mi lavo la 127. Devo ancora pagare 13 rate.
Sono Alice, mio padre fa il pagliaccio e mi fa ridere. Poi allungo lo sguardo verso il mare e cerco nel raggio unico di sole di ricordare perfettamente i lineamenti di mia mamma con indosso il vestito che porta papà. A volte appare attraverso il movimento delle tende nella brezza meridiana.


Il mio nome è Gelsomina, lavoravo come volontaria con gli anziani del mio quartiere prima di ritrovarmi bruciata in un’auto. Il mio nome è Annalisa, il mio è Attilio, sposato da quattro mesi.
Mi avrebbero chiamato Tommaso. Il mio nome è Antonino, partito il giorno dell’anno nuovo, il mio nome è Antonino,
Il mio nome non lo so… Janet

Col. Douglas Mortimer

martedì 3 aprile 2007

FIGLI DI UN DIO MINCHIONE


Figli di un dio minchione

".. Era un mondo adulto. Si sbagliava da professionisti."

Ogni sera, come in tutti i paesi, ci incontriamo al bar e non facciamo niente. Aspettiamo che qualcosa capiti, non necessariamente a noi, ma che accada qualcosa che ci stupisca o semplicemente che riesca a farci incuriosire. Può succedere a chiunque, per noi va bene, anche in un altro posto del mondo, E andiamo a letto contenti.

Una sera Orazio arriva, in piena “riunione barrica” , guadagna il centro e getta un mazzo di chiavi sul banco.
Ci sono quelle di casa, del garage, del cantiere dove lavora come carpentiere idraulico, del furgone e una nuova nuova, di quelle digitali e con il marchio di una prestigiosissima casa automobilistica.
Non si sa come c’è riuscito! Avrà rubato o rapinato una banca, si sarà venduto una terra dei nonni o gli sarà morto uno zio, forse avrà solamente trovato il sistema, quello giusto.
Fatto sta che Orazio s’era comprato la macchina supersport, quella che i ragazzi del bar sognavano in un sogno condiviso che, poi doveva essere la realtà di uno solo.
E quell’uno solo era Orazio.
A tutti noi piacciono le macchine, a me quelle grandi, eleganti e grigie o quelle alte da viaggio, a loro quelle bellissime da corsa con tante lucine, le finestrelle illuminate nel cruscotto e i neon blu nell’abitacolo e sotto la scocca.
Ruote ribassate, tanti adesivi F1, cromature. Rosse.
Comunque questa era davvero speciale e ad Orazio era capitato, per una sera, di attirare l’interesse di tutti noi. Non ci erano caduti i bicchieri di mano dallo stupore ma, con gli stessi bicchieri, eravamo usciti tutti per strada a vederla e a commentarla e quella sera, dopo aver fatto ognuno il giro del paese (1,5KM) eravamo andati a letto soddisfatti della giornata piena che avevamo vissuto.

Solo che Orazio aveva speso tutti i suoi soldi, e la settimana che si buscava in cantiere, il suo padrone la passava sana sana alla concessionaria per completare il pagamento.
Ne consegue che la GT rossa non si spostava mai dal paese. La sera arrivava, caricava il ragazzo o la ragazza di turno, faceva il giro, tornava a fermarsi proprio avanti al bar. Superba...
A questo, che era diventato un costume avevamo dato anche un nome: il kilomtroemezzo.
Orazio arrivava, diceva “Chi viene a fare un giro?” Tutti si prenotavano, poi qualcuno, poi solo uno poi, col passare dei giorni, quando lui arrivava ognuno si nascondeva come poteva dal kilometroemezzo e dalla narrazione dei prodigi della macchina lungo il percorso.
Alla fine (al finale direbbero qui), Orazio girava con ragazzini di sedici anni ai quali illustrava i misteri della sua GTTurbo; loro in compenso gli svelavano i segreti dei loro motorini 50 truccati.

A tutto ci si abitua e, in un piccolo centro tutto diventa patrimonio collettivo. Così come l’orologio del campanile –con il mosaico di maioliche del ‘500 e le lancette di bronzo- e come il ristorante di lusso o le panchine nuove, anche la bella macchina rossa era diventata un patrimonio condiviso, almeno dall’ esterno: il monumentorotabile. Anche a questa avevamo dato un nome.



E così andiamo avanti.
Ogni tanto mi viene da pensare che con quella macchina qualche amico e la ragazza giusta io ci andrei fino in Cina. Invece Orazio a volte scende nella città turistica per passeggiare lentamente e con tutti i neon blu accesi per il corso principale, a volte arriva fino ai centri balneari della costiera. Vestito a festa, con un kilo d’oro addosso, gli occhiali da sole e il sigaro spento in bocca –non fuma-, la camicia a fiori tipo “sognando-la-california” e l’amichetta biondina, vanno a confondersi coi ricchi veri e, magari sognano di potersi fermare, lasciare la bella parcheggiata a vista, andare a mangiare la zuppa di pesce in quel ristorante proibito e dopo nel migliore albergo a fare l’amore e a chiamare il servizio in camera alla mattina: il vassoio con la colazione a letto e l’uovo sodo sull’alzatina d’argento.

Ma una di queste ultime sere Orazio ci ha fatto cadere i bicchieri di mano.
Arriva, guadagna il centro e butta le chiavi sul banco: Comunicazione Grave!
“Domani parto, vado a vedere il sole che non tramonta . “.
Qualcuno –per sfotterlo- gli aveva raccontato di un’autostrada su al Nord dove puoi correre quanto vuoi che nessuno ti controlla e dove ti sfilano al fianco automobili immense guidate da ricchi industriali austriaci e tedeschi.
Poi gli avevano detto che, a un certo punto, l’autostrada finisce e finisce pure l’Europa.
In quel preciso punto, dove finisce l’Europa, il sole non tramonta mai.
Orazio ha deciso di andare a vedere il sole e controllare l’orologio digitale sul cruscotto che dice 23:45.
Appuntamento al mattino al bar per la partenza. Giorno di festa e tutti presenti.
Arriva con la sua tutta lucidata, passata di pasta, vetri specchiati, maniglie trattate con l’Argentìl e gomme passate di cromatina per scarpe.
Lui travestito da: metà Franco Califano, metà Vasco.
Amico-fotocopia, cd Acid e nel bagagliaio decine di calze di nylon per gli scambi sessuali….

Saluti, saluti. Scrivi, scrivo! Baci, baci. Partenza per Capo Nord.
Ma non doveva girare a destra per Capo Nord??
Mandaci una cartolinaaaaaa!


Ieri sera poi è arrivata davvero la cartolina.
Rimini.
Testo: “Uagliò non avite proprio idea!!! Cose a ascì pazz’! Femmene, alberghi, locali, discoteche mai viste, fina alla matina!!! E ffemmene belle ‘e tutte e razze!. E scivoli sull’acqua, e poi, musica, locali, gente strana e femmene bbellissime. E ddoppo a discoteca stanotte aggia ‘ a tirà cu certa gente ca scommette e tutte e femmene me uardarranne……Marò!!!

Sulla rotta verso Nord, Orazio ha scoperto l’America.



Col. Douglas Mortimer

lunedì 2 aprile 2007

Anda e rionda...

Perchè sei così bella?
Perchè mi vuoi ogni volta veder morire?
Perchè mi accechi con quegli occhi di giacchio e fulmini?
Ti accarezzo... e mi impiglio nei tuoi ricci di sole.
Passano veloci i secoli mentre mi ubraico del nettare dolce dell'albero proibito.
Mangio la tua pelle che sa di libertà, che profuma di ricordi.
Non risparmio le tue ossa... e fino nell'anima affondo il mio respiro...
per scoprire i segreti che celi sotto quella scorza di nuvole.
Un anno, una vita intera passerei a frugare dentro di te.
Ma so per certo che morirei nel mare del tuo sangue,
troppo denso di sogno.
Già ora che ci penso ne svengo... in un'estasi di dolore e pace.
Potrei affacciarmi dai tuoi occhi,
ma ho paura di vedere riflesso il mio abisso, che conosco.
Perchè mi pugnali con la tua mano calda?
Come fai a volarmi per la testa e a naufragarmi nello stomaco?
Sei fatta di carne o di alito di bosco?
Ti inchioderei ai miei piedi per non farti scappare via.
Come è sinistro a volte il tintinnio delle chiavi.
Brividi di freddo in fondo al portone.
A volte le case bruciano.
Le mura, spettatrici inermi,
restano lì testimoni del susseguirsi di vite interrotte.
Dalle finestre un vento liberatore spazza via cenere e fumo.
E ladri ci derubano, saette ci colpiscono.
Candele si spengono sotto i colpi di ciniche brezze.
Ma tu aspettami! E ancora una volta ti porterò a vedere le onde,
a mangiare dove volano i gabbiani e
a conoscere la sabbia, granello per granello.

domenica 1 aprile 2007

IRENE DELLE STELLE

Irene è una stella che brilla nell’oscurità.
Dolce e bella come una spirale di fumo marginale.
Andiamo a volare Irene delle stelle.

Irene svanisce e non si sa chi la portò via.
Irene scompare ed un passerotto prende il suo posto.
Dove va Irene delle stelle?

Si dice che fu un angelo chi le insegnò il suo mondo immaginario.
Tempo dopo era rimasto cieco e andava in cerca di quella stella.

Irene delle stelle è una fata con faccia d’angelo e cuore.
Irene tiene un ago in fondo al suo pagliaio.
Può accecare Irene delle stelle.

Sempre va sola come alla deriva, l’autorità la vede però la schiva.
Di dov’è?
Con chi sta?
Ritorna o se ne va?
E’ una novella della notte o della città?

Irene è come una frutta tropicale da assaporare con prudenza.
Irene delle stelle è volata con le sue sorelle.

TI RACCONTO DI UN BIMBO

Il 90% (una percentuale molto elevata) delle morti di 12 milioni di bambini minori di 5 anni che ogni anno avvengono nei paesi del terzo mondo sono associate alla malnutrizione, alla mancanza di acqua e medicine ed in special modo al nostro menefreghismo.


TI RACCONTO DI UN BIMBO

Voglio raccontarti di un bimbo
che si confonde tra milioni di ossa e rovine
così che il bimbo scappa con occhi di rimprovero
mentre il sangue scorre tutte le notti.

La morte si è versata per tutto il campo.
E a quelli che l’hanno seminata che gli aspetta?
I responsabili non hanno versato una lacrima
ma consumeranno i loro smoking all’inferno!

E torna la necessità di ripassarmi quello che sono
Se esiste o no l’umanità…
L’avete vista oggi?

La nostra terra in agonia, tutti i giorni soffre
e nessuno sta a guardare come finirà!
Trentacinquemila bimbi muoiono ogni giorno
La televisione ne' cenno ha dato…

E torna la necessità di ripassarmi quello che sono
Se esiste o no l’umanità…
L’avete vista oggi?

Ed i grandi illusionisti che dicono di essere i grandi
e di essere altruisti…. i vigliacchi!!
Mentre il potente più ordina e più mangia
ed il più piccolo sempre paga.

Ho pensato che non c’era più nessuno
che più nessuno mi rispondeva.
Però l’amore continua a sorvegliare
E la vecchia sentinella nel mezzo del deserto
ha acceso infinite candele per i morti

E torna la necessità di ripassarmi quello che sono
Se esiste o no l’umanità…
L’avete vista oggi?