sabato 28 aprile 2007

Gueules Noires

Gueules Noires
Autrice: Monica Ferretti
Editore: Nonsoloparole
RISCRITTURA ED ADATTAMENTO TEATRALE: Col Douglas Mortimer
I scena: Domenica 27.05 ore 21.00 Ass. Culturale Tiriciclo Piano di Sorrento
II scena: 20 Luglio parco giochi Piano di Sorrento via delle rose ore 21
III scena: 23 ottobre Teatro Mio Vico Equense ore 21
IV scena: CPS omunità Promozione e svuluppo via S. Vincenzo 16 Castellammare ore 21


8 agosto 1956, ore 8 del mattino:

Testuale:
“Quando è successo avevo appena caricato i vagoni,. Avevo fatto due cariche, come mi era stato detto, dopo mi sono spostato per spostare un vagone di ferro mentre l’altro amico che è rimasto con me è rimasto là. Se ha avuto una telefonata io non lo so.
Quando sono tornato ho trovato l’ascensore là e ho chiesto: Posso caricarlo l’ascensore? E lui mi ha detto; si, lavora. Perché lui era incaricato più di me, perché lui parlava bene il francese e io no. Poi lui se n’è andato al telefono.
Nello stesso tempo che lui era al telefono ho cominciato a caricare, appena ho messo il vagone dentro che non è andato regolare, l’ascensore è partito ed è rimasto incastrato.
Un attimo dopo ho visto che scendeva fumo, fiamme e scintille…
Sono scappato subito dalla parte dell’altro ascensore, nello stesso tempo il mio amico che lavorava con me è scappato dietro i vagoni vuoti. Io mi sono diretto alla porta per andare all’altro ascensore per dare l’allarme e avere l’opportunità di salvarmi….Io, gli altri….
Quando sono arrivato all’altro pozzo ho suonato per avere l’altro ascensore ma non me lo davano perché era occupato. E mentre aspettavo ho visto il fumo venire verso di me e ho pensato che l’affare era triste…. Avevo chiuso le porte perché sono fatte per non far passare l’aria, ma il fumo è passato lo stesso sotto di loro.
Ho dovuto aspettare che l’ascensore facesse due viaggi prima che si fermasse. Dentro c’erano due meccanici che venivano a lavorare dove ero io. Ho detto: restate dentro l’ascensore che dobbiamo rimontare perché qua è triste. E anche loro hanno visto che da dentro veniva il fumo e anche loro hanno avuto paura. …
Sono salito e siamo dovuti scendere prima a 1.035… quando siamo arrivati prima ancora che l’ascensore si fermasse abbiamo detto agli altri uomini: non caricate la gabbia che siamo in pericolo.. anzi cercate di liberarla per salire il personale se possibile così tutti restano salvi.---
Poi siamo rimontati. .-.”

Antonio Iannetta, operaio italiano, minatore ha cominciato il suo turno verso le ore 7 la mattina dell’8 agosto.
E’ uno dei tanti emigranti che l’Italia scambia con carbone. In Belgio nessuno vuole scendere a lavorare alla Mina, e quindi il Governo ha stabilito accordi commerciali con i vari paesi più poveri dove abbonda la disoccupazione e da dove sta iniziando una particolare migrazione interna. Dalle campagne alla città, alla fabbrica, inseguendo il sogno di un impiego meno faticoso, di un guadagno più alto, di condizioni di vita più umane.
50.000 operai doveva fornire l’Italia, in cambio avrebbe ricevuto 2.500 tonnellate di carbone ogni mille minatori inviati.
Questo accordo si chiama Protocollo d’Intesa italo-belga ed entra in funzione nel 1946.
Ed è così che sui sagrati delle piazze dei più lontani paesi, da Bolzano a Trapani, vengono affissi manifesti che raccontano della possibilità di farsi una piccola fortuna andando qualche anno a lavorare in miniera e tornando poi in paese finalmente benestanti.
E tanti partono nella speranza di ritornare di lì a qualche anno, portandosi dietro qualche soldo e prendere in gestione il bar della piazza.
Sarebbero stati raccolti in caserme per passare le visite mediche e poi spediti in treno alle varie destinazioni.


L’accordo prevedeva anche le mansioni degli operai italiani; ad essi sarebbero stati affidati i lavori di fondo, ovvero quelli che si svolgevano a maggiore profondità nel sottosuolo e che esponevano i minatori a rischi più elevati.
Il contratto aveva una durata minima obbligatoria di un anno, anche se generalmente la media era di cinque ed il permesso di soggiorno era legato a quello di lavoro. Quest’ultimo era contrassegnato per tutta la durata del contratto dalla lettera B. Questo significava che il possessore del documento non poteva essere impegnato che in miniera.
Diventava così praticamente impossibile cambiare mestiere per anni e anche tornare a casa non era facile.
Naturalmente vi erano coloro che avrebbero preferito rinunziare ad un lavoro tanto duro e pericoloso prima della fine del contratto, ma esistevano metodi piuttosto convincenti per frenare le defezioni:

Nel 1948/49 quando venivano qui gli immigrati andavano alla mina, scendevano un giorno o due e, vedendo quanto brutto era il lavoro, rimontavano e chiedevano di non scendere più. Ma non potevano ritornare in Italia: li prendevano (10,15,20 minatori alla volta) e li portavano a Bruxelles, come in un campo di concentramento.
Era una casa dove ti facevano stare 28 giorni, dopo venivano a chiederti hai deciso quello che vuoi fare? E uno si diceva: torno in Italia a fare che?Non ho lavoro, non ho niente… e molta gente tornava in miniera. Hai capito? Ti tenevano un mese in prigione per costringerti a lavorare.

Quando dalla Sicilia, dalla Calabria, dagli Abruzzi o anche dal Veneto, un emigrante partiva, portava con sé il vestito che aveva indosso e poche altre cose. Questo lo faceva essere in balìa delle organizzazioni del lavoro. Se non rimaneva con loro non poteva neanche avere da mangiare.
In Belgio venivano trasferiti in massa al Petit Chateau, un vero e proprio campo di concentramento.

Negli anni ’40 e ’50 coloro che attendevano lì per poter tornare a casa –ufficialmente i tempi di attesa erano collegati alla necessità di raggiungere il numero sufficiente di uomini per giustificare un treno-, non restavano inattivi, dovevano guadagnarsi il loro mantenimento. Pertanto venivano impiegati nella realizzazione di opere pubbliche in città. L’unico salario percepito in cambio del lavoro era costituito dal vitto e dall’alloggio forzato al petit Chateau.




8 Agosto 1956 mattino presto.
Intorno alle sette, dai pozzi di Bois du Cazier cominciano a risalire gli uomini del turno di notte e a scendere quelli del turno del mattino.
Alle otto sono tutti ai loro posti:

1 addetto alle pompe a 170 metri.
27 minatori a 715/765 metri
89 a 835/907 metri
149 a 975/1035 metri
9 a 1100 metri.

Più una trentina di cavalli adibiti al trasporto del vagoncini e distribuiti sui vari livelli.
Il lavoro inizia normalmente e niente fa presagire ciò che accadrà tra poco. Le gabbie degli ascensori salgono e scendono, i martelli pneumatici frantumano le pareti delle taglie, il carbone viene caricato sui vagoncini gli zoccoli dei cavalli rimbombano sotto i soffitti delle gallerie….



Arrivavano in treni su vagoni di terza classe dopo aver viaggiato per giorni 8 per scompartimento e su panche di legno.
Questi prigionieri in vacanza, una volta giunti alla loro destinazione finale, trovavano alloggio nelle cantine o mense dei minatori, spesso gestite da emigranti come loro. Lì cominciavano a indebitarsi per pagarsi il posto letto che comprendeva: un materasso (usato) le coperte e le lenzuola (usate pure quelle) e gli attrezzi per la miniera (una pala, un piccone, un’accetta, un casco di protezione, il contenitore per il caffè). Una volta pagati i debiti, tolto il denaro necessario per assicurarsi il vitto e il posto letto, cercavano di risparmiare il più possibile per offrire il viaggio alla famiglia.
Infatti chi aveva con sé la moglie ed i figli poteva usufruire degli alloggi alle Coron.
Le abitazioni alle Coron avevano una forma semicilindirca, la cui parte curva, tetto e pareti laterali, era in lamiera, mentre le due estremità erano chiuse da muri di mattoni nei quali si aprivano porte e finestre.
Non è difficile immaginare le condizioni di vita all’interno, il caldo torrido quando il sole arroventava la lamiera del tetto e il gelo che nessuna stufa riusciva del tutto a combattere quando, in inverno la temperatura scendeva sotto lo zero.
Le Coron erano spesso luoghi separati dalle città e dai paesi abitati dalla popolazione locale e si trasformavano facilmente in ghetti chiusi, i contatti con l’esterno ridotti al minimo indispensabile.

Quando siamo venuti qua era triste, dicevano, -spaghetti, macaoni, rubate nelle nostre case…-

Naturalmente c’erano anche i Consolati e le Associazioni Sindacali.

Si andava al Consolato e bisognava fare la coda come cani Quando sono arrivato nel ’48 dovevo rinnovare la carta d’identità ogni sei mesi e mi costava 150 franchi, io ne guadagnavo 152…

C’era un’assistente italiana tra i caporali, gente fetente, quando ci hanno dato la colazione si è persino fatta pagare il tè.

Le visite mediche non si facevano solo prima di scendere in miniera, dovevamo subirle una volta all’anno.
Se non eri più idoneo il centro medicale ti poteva anche fermare e dire: -lei domani non scende più-.
Però ti fermavano solo due o tre mesi prima di morire… fino a che non eri pieno fino a qui di polvere…

Data la situazione la famiglia diventava il punto di riferimento primario per questi uomini., risparmiavano tutto quello che avevano per farsi raggiungere il più presto possibile … ricreando uno spicchio del proprio paese natale in una terra straniera e rendendo possibile la sopravvivenza delle proprie tradizioni e della propria cultura.




8 Agosto 1956 mattino presto.
Al livello 975 cominciano ad arrivare dalle taglie i carrelli pieni, alle gabbie vi sono due minatori: Antonio Iannetta e Gaston Vausort, belga. Iannetta parla poco il francese, è arrivato da pochi mesi, perciò è Vausront che risponde al telefono e riceve le direttive dalla superficie. In questo caso gli viene detto che “al giorno” stanno già lavorando con un altro livello, quindi le gabbie che si dovessero fermare a 975 metri non devono essere riempite.
cronologia
Dalla superficie arriva l’ordine di non caricare la gabbia. Vasrount avvisa il collega Iannetta che non obbedisce o forse non capisce. La sua padronanza del francese è molto limitata, forse scambia quel “Non caricare” con qualcosa come “Sbrigati a caricare”. Forse non si dà nemmeno la pena di cercare di decifrare quello che gli viene detto, è talmente abituato a sentirsi dire di lavorare più in fretta, da dare per scontato che le parole del collega sono un’ennesima sollecitazione. Forse, indipendentemente da quanto gli viene detto fa di testa sua, cerca di portarsi avanti col lavoro, lo fanno in molti là sotto.



La miniera è una città sotterranea che si esprime in verticale in modo del tutto speculare ad una città fatta di grattacieli. I pozzi scendono in profondità per centinaia e centinaia di metri, intersecati alle varie quote da gallerie che si inoltrano nel terreno per chilometri. L’attività è continua, si lavora 24 ore su 24 suddivisi in turni.. C’è un gran via vai di ascensori che portano su e giù il personale e i vagoncini, sia quelli pieni di minerale sia quelli vuoti da caricare.
La miniera è un luogo rumoroso, il carbone viene frantumato con i martelli pneumatici ed il loro frastuono si trasmette di galleria in galleria, sommandosi al suono degli zoccoli dei cavalli sulla roccia, allo sferragliare dei carrelli e delle gabbie, alle voci degli uomini, alle bestemmie. …

Benché fatta di roccia viva non è nemmeno un luogo stabile. E’ soggetta a crolli, frane, esplosioni ed all’azione dell’acqua. …


12 Dicembre 1958 in un’altra miniera:
I nuovi piani della miniera non portavano al pozzo chiuso cent’anni prima e in questo frangente di tempo il pozzo si era riempito d’acqua, era da giorni che si lavorava nell’acqua.
In quel tratto della taglia, solo in quel tratto, usciva acqua dal carbone, cioè di lato, dal tetto dal pavimento.
Quel giorno, il 12 dicembre del ’58 un mio collega siciliano che si chiamava Pasquale, mi ha detto: Che ora è?
E io che avevo l’orologio dentro un barattolino perché non si riempisse di polvere gli ho risposto: le undici meno venti. Aveva venti minuti di vita quel poveraccio.
Alle undici precise ci fu un’esplosione, si è allagato tutto. Pasquale è morto perché l’esplosione l’ha preso….

Questo tipo di incidente è molto comune nelle miniere, una sacca di grisou, infiltrazioni d’acqua, vecchie armature di sostegno che possono cedere all’improvviso. I corpi dei minatori si trasformano in mappe viventi che narrano ognuna di questi avvenimenti: ossa fratturate, dita mancanti e, naturalmente cicatrici di ogni sorta. Spiccano sulla pelle come geroglifici indelebili di una lingua morta.

Quando tornavo dalla miniera e prendevo il tram, anche dopo essermi lavato, spesso nella zona degli occhi il nero rimaneva e le donne, vedendomi così si alzavano e se ne andavano… stavano in piedi piuttosto che sedersi vicino ad un minatore.


Parlando di cavalli e vagoncini, si può avere un’idea errata anche degli spazi, ritenendoli più vasti di quanto in realtà non siano. Se è vero che le gallerie principali sono abbastanza ampie –circa tre metri di larghezza per due metri d’altezza-, i cunicoli che portano alle taglie (i punti d’estrazione vera e propria) sono molto più angusti. Le taglie, poi, seguono l’altezza delle vene di carbone e queste vanno dai trenta centimetri al metro e venti. La taglia può distare dal pozzo principale anche dieci chilometri ed essere lunga qualche centinaio di metri. Lì lavorano tra i venti e i trenta uomini, un enorme utero affollato di feti dai volti anneriti.

Quando si lavorava nelle vene più basse, si doveva scegliere se entrare a pancia in giù o, al contrario, con la faccia rivolta verso l’alto. Una volta deciso era impossibile cambiare idea e dovevi rimanere in quella posizione per otto ore.

I minatori, quindi, non camminano, strisciano su gomiti e ginocchia. In questa posizione frantumano, spalano, trasportano carbone. Tutto questo mentre un vento instancabile li schiaffeggia incessantemente e scaglia sui loro volti, polvere, sassolini, detriti… Più è stretto il cunicolo più il vento sarà forte e fastidioso.
Il sistema di ventilazione, in funzione continuamente, deve essere molto potente per arrivare fino in fondo ai pozzi ed ai chilometri di gallerie da lì dipartono. Di conseguenza, il vento sotto terra non cessa mai.
Nelle taglie, lungo i cunicoli, per le gallerie, non era facile trovare un connazionale col quale scambiare qualche parola, anche perché, raggruppare gli uomini per paesi d’origine non era tra le priorità della Direzione della Mina.
Quindi per otto lunghe ore, il minatore si trovava a dover lavorare nella taglia completamente isolato senza capire neanche un segnale, l’avvertimento per un pericolo.
Ci volevano, infatti, almeno sei mesi per imparare, “… una parola al giorno”.

Era terribile sentir parlare e non comprendere una parola di quanto dicevano.. Vi fù chi si trovò davanti al pericolo e non potè evitarlo perché non capiva quelle grida che gli dicevano di fuggire dalla frana.




E’ a questo punto che succede qualcosa d imprevisto. Quando la gabbia dell’ascensore arriva al suo livello, Iannetta comincia a stiparvi dentro i vagoncini; uno di questi si incaglia e, mentre il minatore sta tentando di disincastrarlo, la gabbia parte all’improvviso ed il vagoncino, ancora sporgente, strappa tutto ciò che trova sul suo passaggio: cavi elettrici, fili del telefono, condotte dell’olio e persino le guide dello stesso ascensore. Saranno proprio le guide divelte a bloccarne la corsa. In pochi secondi tutto quello che era alloggiato all’interno del pozzo viene sradicato, le scintille causate dall’attrito del metallo sul metallo, entrando in contatto con l‘olio innescano l’incendio.
Cronologia:
Carica all’insaputa del macchinista che, quando il personale di superficie ha finito di scaricare i vagoncini giunti dal livello 765 (quello con cui stanno lavorando in quel momento), in perfetta buona fede, aziona l’argano facendo partire anche la gabbia ferma a 975 metri, con il suo carrello ancora incastrato, provocando il cassage.
Secondo la testimonianza di Iannetta, Vausront va al telefono mentre le operazioni di carico sono già cominciate. Forse dalla superficie si sono dimenticati di avvisare il livello 975 che la gabbia deve restare libera, forse se ne sono accorti solo dopo che Iannetta aziona la campana per far salire l’ascensore di un piano. A quel punto sono corsi al telefono e, non immaginando che un carrello fosse rimasto bloccato, hanno ordinato a Iannetta di interrompere il lavoro, riprendendo poi il lavoro che stavano svolgendo.


In ogni pozzo di estrazione vi sono due ascensori a più piani, comunemente detti gabbie. Funzionano con un sistema a bilanciere per cui, quando una gabbia sale, l’altra scende. Discesa e risalita sono gestite da un macchinista in superficie il cui compito consiste nell’azionare un potente argano a bobine al quale sono collegati entrambe gli ascensori.
Il macchinista non può sapere a che punto sono le operazioni di carico all’interno dei pozzi, senza un sistema di comunicazione il più possibile veloce e funzionale, e infatti il fondo comunica con il giorno attraverso un sistema di suonerie. Per chiamare un ascensore o per avvisare che questo è pronto per la risalita oppure per farlo risalire di un piano alla volta, fino a quando tutti i vani non saranno riempiti, il personale del pozzo usa queste campane secondo un codice prestabilito.

Quando al giorno, l’ascensore carico di carrelli vuoti viene fatto scendere al livello desiderato, l’addetto alle gabbie provvederà a sostituirli con quelli pieni di carbone che arrivano direttamente dalle taglie.
L’addetto alle gabbie provvede a far combaciare il piano dell’ascensore con la pavimentazione della galleria attraverso un equilibratore idraulico poi, spingendo all’interno il carrello pieno, quello vuoto esce automaticamente dall’altra parte.
Naturalmente un vagoncino può incastrarsi senza riuscire ad andare più né avanti né indietro. Sono contrattempi banali, succedono spesso e, in teoria, sono facili da sistemare. L’addetto alle gabbie non deve fare altro che rimuovere l’ostacolo e disincagliare il vagoncino prima di dare il via libera alla superficie per far rimontare la gabbia.


In questo caso, però, l’ascensore è partito all’improvviso, senza aspettare il via libera, senza dare a Iannetta il tempo di disincastrare il carrello.


Ipotesi, supposizioni, non vi è niente di certo su quel che accadde quel mattino. Grazie ad autorità che avevano troppa fretta di chiudere il caso ed a un processo che non ha fatto nessuna chiarezza.
Indagini approfondite avrebbero messo a nudo la totale mancanza di sistemi di sicurezza all’interno delle miniere, e condizioni disumane in cui i minatori erano costretti a lavorare ed avrebbero creato un pericoloso precedente, considerata la frequenza con cui gli incidenti si verificavano.
Ancora oggi i familiari delle vittime attendono una verità ufficiale che non è mai arrivata né dal Belgio né dall’Italia



Ore 8 del mattino.
Un attimo dopo ho visto che scendeva fumo, fiamme, scintille… Sono scappato dall’altra parte dell’altro ascensore nello stesso tempo il mio amico che lavorava con me è scappato dietro i vagoni vuoti…

Nelle gallerie si fa buio all’improvviso (si spengono le luci). L’incendio, alimentato dallo stesso carbone di cui è fatta la miniera infurierà senza trovare ostacoli. Le porte taglia-fuoco, essendo di legno (!!!) non potranno contrastarlo e il fuoco si diffonderà in pochissimo tempo al secondo pozzo –distante dal primo solo 27 metri – bloccando l’unico ascensore ancora in funzione.
Il fumo si propaga molto più velocemente delle fiamme e raggiunge anche i livelli non ancora interessati dall’incendio.
I minatori che raggiungono gli ascensori per tentare la risalita scoprono che entrambe i pozzi sono bloccati.
Un ascensore bloccato, l’altro irraggiungibile.
Chi prova a chiamare la superficie si trova tra le mani un telefono muto.
Ognuno cerca scampo come e dove può. I più cercano di ripararsi nelle gallerie più interne, incalzati dal fumo, dal calore, sempre più intenso, dai primi crolli.
Alcuni cominciano a correre di qua e di là in preda al panico, altri sono letteralmente bloccati dalla paura e non sono capaci di muoversi, altri ancora mantengono la calma e trovano un rifugio, anche precario, che li protegga temporaneamente dalle scintille e dalle frane.
Tutti sono comunque certi che i soccorsi non tarderanno ad arrivare.

Ed infatti le operazioni di soccorso sono già cominciate.
Al giorno si sono accorti che qualcosa non andava, qualcuno uscito pochi minuti prima dal fondo è andato ad avvertire la direzione proprio mentre si verifica l‘esplosione.

Testimonianza fuori testo:
Alle 7 circa del mattino sono sceso con il turno mattuttino fino al livello -850 metri.
Sono stato pregato dai miei compagni di riferire alla Direzione che avevano bisogno di più aria per respirare meglio (l’aria veniva pompata giù dalla superficie). Se sarei riuscito nell’intento mi sarebbero stati davvero grati, anzi mi avrebbero fatto un monumento.
Sono risalito quindi in superficie intorno alle 7.30.
Nella risalita ho avuto la sensazione che la gabbia dell’ascensore facesse attrito ogni tanto con qualche cosa provocando anche alcune scintille. Mi ricordai che qualche giorno prima anche altri minatori parlavano di questi attriti nella risalita della gabbia. Pensai non fosse una cosa normale che in una miniera ci fossero scintille….
Arrivato in superficie mi recai subito negli uffici della Direzione della miniera e ho esposto i problemi di quella mattina (più aria sotto in miniera e le scintille dell’ascensore). Sa quale fù la risposta che ottenni (soprattutto riferita al problema dell’ascensore): Stieltjes, impicciati degli affari tuoi!!! Le scintille saranno un semplice contatto tra la gabbia e le guide dell’ascensore che non influiranno minimamente sulla sicurezza!
Fu in quel momento (alle 8.10) che sentimmo una forte esplosione sotterranea e l’impressionante colonna di fumo che usciva dal pozzo 22…
Io da quel pozzo ci ero uscito circa mezz’ora prima…
A tragedia avvenuta come arrivò la notizia in superficie? Cosa successe nei minuti successivi alle 8.10?
Guardi, ci sono stati attimi di smarrimento. Minuti nei quali non si sa cosa fare, da dove in iniziare.
Si chiamarono i soccorsi… Arrivarono le ambulanze… Ma per fare cosa? Dove erano i feriti?
Dopo il primo smarrimento ricordo di essere andato via dagli uffici e poi dalla miniera.
Era successo una cosa spaventosa che sarebbe stata ricordata come la “tragedia mineraria di Marcinelle”.
Ho perso in un solo momento tutti i miei amici di lavoro e da allora vivo nel loro ricordo.

Sig. Stieltjes, responsabile delle comunicazioni tra i minatori e la direzione (interprete).



I pompieri mettono subito in funzione gli idranti per tentare di spegnere il fuoco dalla superficie e gli ingegneri stanno studiando il modo per scendere a fondo nella carboniera.
Si fa un primo tentativo di utilizzare il pozzo per l’entrata dell’aria ma è un lavoro lungo, ci vogliono ore per mettere in funzione un ascensore quando l’altro è bloccato.

Quando, finalmente una squadra composta da tre uomini può tentare la prima discesa, scopre di non poter andare oltre il 170 metri di profondità a causa dell’enorme calore che si sprigiona dall’interno del pozzo.
Si tenta un’altra possibilità. Poco più a Sud dei due pozzi in fiamme ve n’è un terzo ancora in costruzione; gli ingegneri, studiando le planimetrie della miniera hanno individuato una galleria in disuso che può essere usata da collegamento tra il nuovo pozzo e gli altri due. Nessuno sa che quella galleria è ostruita da un muro spesso un paio di metri – costruito, pare, per motivi di sicurezza-, e che l’unica via d’accesso è un passo d’uomo del diametro di circa 30 centimetri.
Impossibile passarvi, impossibile allargarla.

Ai cancelli si è andata ammassando una folla enorme, che attende notizie dei familiari intrappolati nelle gallerie del Cazier.
Sul piazzale della carboniera si accalcano giornalisti e fotografi, ma anche ambulanze della centrale di soccorso e anche un distaccamento dell’esercito, tutti pronti ad intervenire con la massima tempestività non appena si cominceranno ad estrarre i primi feriti.
Passeranno l’intera giornata oscillando tra paura e speranza, ma tenendo ancora ben lontana la disperazione.

Nel pomeriggio altri sei minatori usciranno vivi dalla bocca del Cazier, sommati a quelli risaliti subito dopo l‘incidente, a fine giornata si conteranno tredici superstiti in tutto.


Duecentosessantadue uomini (tra cui 7 ragazzi minorenni) sono ancora prigionieri all’interno della miniera.

In serata giungono al Bois de Cazier le più alte cariche dello stato belga, l’ambasciatore italiano e lo stesso re Baldovino. Saranno anche gli unici ai quali verrà confessata la verità: le speranze di trovare altri superstiti sono scarse se non addirittura nulle.
Intanto l’Italia che fa le prove generali di quello che sarà il boom economico e si prepara a consumare le sue prime “feriediagosto” , si blocca nelle salette dei bar, avanti ai televisori comperati dal gestore col sistema del “lungo respiro” sperimentando per la prima volta il dramma in “presa diretta”.

Il 9 agosto i tentativi di scendere ai livelli più bassi della miniera proseguono incessantemente.
L’incendio è scoppiato a circa 900 metri di profondità e fino ad ora non ha permesso alle squadre di soccorso di scendere oltre gli 835 metri.
Vengono battute palmo a palmo tutte le gallerie ma, a parte pochi superstiti trovati il giorno prima a quota 765, non vi è traccia di sopravvissuti. Vengono rinvenuti soltanto cadaveri, perlopiù uccisi dal fumo o dall’ossido di carbonio.
Quando finalmente viene raggiunto il livello 907, i soccorritori trovano la strada sbarrata dal calore ancora troppo intenso e dalle frane che continuano a susseguirsi e non possono proseguire.
10 agosto. Passano altre 24 ore. Frane, fumo e calore continuano a rallentare i soccorsi. Alle dieci di sera il livello 907 viene finalmente raggiunto e in parte esplorato. Ma l’unica notizia che i soccorritori portano in superficie è che l’aria in quel livello è respirabile.
Nei giorni successivi si recuperano soltanto cadaveri, non si fa alcun progresso sul fronte dell’esplorazione di quelle parti di miniera che ancora non sono state raggiunte.
13 agosto. In serata viene diffusa la notizia di altri 80 morti rinvenuti al livello 835.
Si arriva così al 17 agosto senza che un solo sopravvissuto venga ritrovato, eppure la direzione della carboniera continua a rilasciare comunicati rassicuranti.

Accanto alle autorità schierate in prima fila c’è l’intera popolazione della cittadina che, lasciati da parte i contrasti dovuti ad una spesso difficile convivenza, si stringe nel lutto. Quello, almeno è privo di nazionalità e ha lo stesso colore per tutti.

Le operazioni di soccorso non sono rese difficili soltanto dalle frane, dal grisou e dal fumo, ci sono i corpi di 30 cavalli e di un numero ancora imprecisato di minatori che si vanno decomponendo nelle gallerie. L’odore è intollerabile, alcuni vomitano nelle maschere dei respiratori senza tuttavia poterle togliere –il rischio di asfissia è tuttora altissimo-, e semi-incoscienti vengono riportati in superficie dai loro compagni. Il tempo di riprendersi e scendono nuovamente.

Il 22 agosto, nella notte, la squadra dell’ultimo soccorso trova finalmente un passaggio per il fondo della miniera. Quando gli uomini sbucano nella galleria, trovano soltanto silenzio. Non c’è il disordine di una fuga impazzita, non ci sono frane o crolli visibili, non c’è fuoco; solo la quiete immobile di un luogo abbandonato.

Da quel momento in poi non si parlerà di operazioni di soccorso ma di operazioni di recupero.
Man mano che i resti dei minatori vengono riportati al giorno dopo la terribile incombenza dell’identificazione, i parenti delle vittime lasciano i cancelli, la folla si assottiglia, gli ultimi giornalisti se ne vanno.
La Croce Rossa lo farà il 19 settembre,
Il 28 verrà ostruito il pozzo dell’aria nel tentativo di spegnere definitivamente l’incendio.
Il 17 dicembre il Cazier restituirà le sue ultime vittime, ma a quel punto di Marcinelle non si parla quasi più, queste notizie non sono altro che brevi trafiletti nelle pagine più interne di qualche quotidiano.


Lì sotto c’era un padre di famiglia che aveva due figli -14 e 18 anni-, loro facevano la scuola come ingegneri della mina. Lui ha detto ai suoi figli: “Venite con me perché ho parlato con l’ingegnere e mi ha dato il permesso di farvi scendere a vedere le vene del carbone”.
Quel giorno si era portato dietro i figli.

Il 22 agosto, nella notte, la squadra dell’ultimo soccorso trova finalmente un passaggio per il fondo della miniera. Quando gli uomini sbucano nella galleria, trovano soltanto silenzio.
Si procede lentamente, con attenzione fino a quando la squadra trova una porta taglia-fuoco chiusa sulla quale è stato inciso un messaggio;
“Fuggiamo davanti a fumo. Siamo una cinquantina e andiamo verso la taglia Quattro.
11.15
Gonet”

Gonet era il caposquadra padre di Willy e Michael . Quel girono, dopo essersi reso conto di quanto stava accadendo, aveva guidato i suoi uomini verso il punto che riteneva più sicuro, chiudendosi le porte taglia-fuoco alle spalle.
Queste, di legno, non sarebbero servite a molto contro l’incendio ma, pensava, avrebbero protetto i cunicoli più interni dal fumo.
I soccorritori si rianimano: se quegli uomini dopo più di tre ore dallo scoppio dell’incendio erano ancora vivi e se hanno trovato un luogo sicuro, potrebbero avercela fatta…
Si lanciano lungo la via indicata dal messaggio, nella speranza di cogliere un grido un lamento, un qualsiasi rumore che potesse indicar loro la presenza di sopravvissuti.
Dopo una cinquantina di metri la galleria fa una svolta e, poco più avanti, quasi inciampano in un gruppo compatto di minatori –e due ragazzini-, rannicchiati gli uni contro gli altri, quasi abbracciati tra di loro.
L’ossido di carbonio li ha uccisi pochi minuti dopo aver lasciato il loro ultimo messaggio, mentre ancora correvano in cerca di un rifugio.
Fulminati senza nemmeno rendersene conto.


E' stato un tempo il mondo
giovane e forte,
odorante di sangue fertile.
Rigoglioso di lotte, moltitudini,
splendeva, pretendeva molto.
Famiglie, donne incinte, sfregamenti, faccie, gambe, pance, braccia.
Dimora della carne, riserva di calore,
sapore familiare, odore.

E cavità di donna che
crea il mondo, veglia sul tempo lo protegge.
Contiene membro d'uomo che,
s'alza e spinge, insoddisfatto poi distrugge.


Il nostro mondo adesso è debole e vecchio,
puzza il sangue versato infetto.
Povertà mangànìma, malaventura,
concedi compassione ai figli tuoi.


Glorifichi la vita e
Gloria sia!
Glorifichi la vita e
Gloria è.

E' stato un tempo il mondo giovane, forte, sorride confidente il giovine guerriero, in una vecchia foto. tra le mani una treccia.
Ora, cranio rasato, celebra la sua prima sconfitta.

Prezioso,
il luogo, il tempo,
dovuto al Silenzio!
Qua. Ora.
Io taccio.

(CSI tratto dall'album: Noi non ci saremo)

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