lunedì 28 gennaio 2008

LA FAVOLAMAGICASETTE


LAFAVOLAMAGICASETTE

In un villaggio di un luogo imprecisato dell’Europa orientale e in un altrettanto imprecisato tempo, ma molti secoli sono ormai passati, il rabbino, essendosi fatto vecchio pensava alla sua sostituzione.
Fu così che si isolò nel bosco per sette giorni e altrettante notti aspettando che l’ispirazione venisse a visitarlo. Alla fine del periodo di meditazione tornò allo Shtelt tutto felice, correndo e agitando le braccia.
“Ho trovato la soluzione! Riunite tutta la comunità che ho qualcosa da dirvi!”
Quando tutta la cittadinanza fu adunata nella unica piazza, avanti alla Sinagoga, il Rabbi così si espresse:
“Cari amici, mi sto facendo vecchio e sarei felice di morire sapendo chi prenderà il mio posto.
Per diventare il capo di questo popolo bisogna essere saggi e per essere saggi bisogna avere la conoscenza.
Per avere la conoscenza non deve mancare la memoria e siccome la memoria, più è lunga e più genera conoscenza quindi saggezza, decido che chi di voi mi mostrerà di avere la memoria più remota sarà designato a divenire Rabbi e quindi capo di questo villaggio”. ?!
“Chiunque si potrà presentare a sostenere la prova”.

I poveri ebrei si battevano i pugni in testa, si tiravano i ricci e la barba andando alla ricerca di un fatto remoto da raccontare al loro capo-villaggio per dimostrare di essere degni della successione.
Alla fine, nel giorno stabilito, si presentarono alle porte della Sinagoga sei tra i più anziani –quindi saggi- provenienti dai villaggi vicini e un ragazzo.
Il Rabbi li guardò a lungo e alla fine disse loro: - Tornate tra sette giorni e raccontatemi la cosa più remota che vi ricordate. Poi tornerete tra sette altri giorni e mi direte perché è la più vecchia-.

Si sciolse l’assemblea e ognuno corse a riferire al suo rabbino (ogni villaggio ne possiede uno) e a chiedere consiglio. L’unico che non potè farlo fu il ragazzo. Già l’altro suo concorrente si era rivolto al Rabbi del suo Shtelt e si sa: su una materia lui si può esprimere una volta sola.
Tornò alla sua casetta nel bosco e si affacciò triste alla finestra.
“Mio Dio, in che guaio mi sono cacciato! E adesso cosa gli dico tra una settimana? Gli altri sono tutti più vecchi e inoltre hanno l’aiuto dei saggi dei loro villaggi. Ma, se non dico qualcosa finisco che, non solo non divento il governatore ma addirittura finirò per essere lo scemo del villaggio…”.
Proprio in quell’istante passò Shloyme, il pazzo e lo salutò: “Perché piangi Yulke? Che ti succede?” “Lasciami perdere Shloyme, manchi solo tu..”
Passarono i giorni. Nelle case si vedevano uomini anziani seguiti da altri uomini anziani passeggiare intorno al tavolo da pranzo massaggiandosi le barbe, poi sedevano e consultavano grandi libri. Un uomo dietro a uno scanno parlava loro ininterrottamente. Sette giorni e sette notti, senza mai fermarsi.
L’ultima notte Yulke era alla finestra come al solito e , come al solito passò allegro Shloyme, salutandolo. Ma questa volta aggiunse. Fammi entrare; tu sai che non si può negare l’opsitalità e la carità a un mendicante. Fammi entrare dammi pane, formaggio e vino. Quindi sedette e mangiò e soprattutto bevve. Poi finalmente parlò con il ragazzo che per sette giorni e sette notti non aveva né mangiato né dormito e neanche questa volta fece eccezione.
“I vecchi saggi andranno domani dal Rabbi e gli diranno qualcosa, tu gli darai questo foglietto ma solo se mi prometti che quando ti recherai per la seconda volta gli passerai questi altri due. Tu promettimi questo e io ti prometto che sarai tu il successore”.
E’ scemo, pensò Shloyme. Ma accettò; almeno porto qualcosa.


Il giorno successivo nella piazza della Sinagoga c’era tanta gente.
Arrivarono tutti e si allinearono avanti alla poltrona del Rabbi.
Il primo disse: “Mi ricordo del giorno in cui la mela fu tagliata dal ramo”.
Grandi mormorii di approvazione; ecco un ricordo remoto!
Il secondo anziano: “Ecco un racconto che risale assai indietro nel passato. Io mi ricordo del giorno in cui ciò accadde, come pure della candela che ardeva”.
Ooohhh! Tutti furono d’accordo che quella era una storia ancora più vecchia.
Il terzo: “Io mi ricordo del giorno in cui il frutto si mise a crescere per la prima volta. Infatti, in quel momento il frutto cominciava a prendere forma”.
OOOooohh! Ecco una storia ancora più antica.
Ma il quarto meravigliò tutti coi suoi ricordi. “Io mi ricordo il giorno in cui i semi dovevano essere messi nel frutto e mi ricordo il saggio che concepì il seme, e mi ricordo il gusto che aveva il frutto prima ancora che il gusto entrasse nel frutto”.
Tutti gli ebrei salutarono il nuovo Rabbi, girando in tondo e saltando sui due piedi e battendo le mani. Stavano per arrivare i paesani con gli strumenti musicali per fare festa quando
Il quinto –furbo disse-: “Io mi ricordo l’odore che aveva il frutto prima ancora che l’odore entrasse nel frutto”.
Nacque una disputa su chi dei due avesse il ricordo più remoto e, mentre si prendevano a capelli e si tiravano le barbe e i riccioli intervenne l’ultimo anziano.
Il vecchio rabino era stato per tutto il tempo immobile sorridendo compiaciuto della grande saggezza del suo popolo.
Sesto anziano: “Io mi ricordo dell’apparenza del frutto ancor prima che esso fosse visibile e ero ancora bambino”.
Ecco il nuovo rabbino!! Finalmente possiamo fare festa e mentre si preparavano i banchetti nella piazza e si iniziavano a suonare flauti fisarmoniche e violini…

Il ragazzo si avvicinò al capo-villaggio e gli prose un foglietto, poi timidamente si pose nell’angolo più nascosto della piazza.
Legge il foglio, si alza, solleva le mani. Il popolo tace.
Ecco l’ultimo ricordo: “Io mi ricordo di tutte queste cose e mi ricordo ugualmente della cosa che è il Nulla”.
Rimasero tutti a bocca aperta. Immobili. Fulminati.
Il più giovane, un ragazzo. Neanche lo avevano notato….

“E adesso tornate ai vostri villaggi, pensate bene, consultatevi coi vostri saggi.
Avete sette giorni e sette notti. Allo scadere del tempo mi direte il significato dei vostri ricordi”.
Si allontanarono tutti battendosi in testa e lamentandosi hoihoihoihoi e corsero dalle loro guide. Li vedremo per sette giorni e sette notti girare intorno al tavolo della cucina massaggiandosi la barba e strappandosi i ricci inseguiti da oscure figure con grandi libri in mano.

Shloyme si pose alla finestra in attesa di Yulke. Ma non apparve. Per sette notti invece la sua finestra si trasformava in uno schermo e in questo apparivano le immagini delle case del villaggio, famiglie con i loro disagi, la miseria, la povertà, le speranze e la malattia, i timori, le nascite, le morti. I fidanzamenti, i corteggiamenti, i matrimoni. Gli amori infelici. Insomma Shloyme per sette giorni e sette notti ebbe la visione del suo villaggio e dei patimenti del suo popolo. Adesso sapeva che cosa avrebbe fatto se fosse diventato Rabbi.
Un’ora prima dell’incontro, lo scemo apparve. Era allegro e volle pane formaggio e vino. Per 49 minuti (7x7) mangiò, bevve e rise da solo. Poi dette al ragazzo due foglietti e gli ricordò la promessa.
“Va bene ma dimmi una cosa. Come mai sei così allegro tu che sei il più povero, il più idiota, non hai una donna, non hai un amico “
“Ma io rido perché sono pazzo e poi non sarà sempre così. Le cose cambiano”.


Piazza, festa, banchetti musica e, soprattutto
Risposte.
Spiegazioni. Ecco la prima.

Primo anziano.
“Io ricordo il giorno in cui la mela fu tagliata dall’albero, ricordo il momento della mia nascita. Quando fu tagliato il cordone ombelicale”.
E si mise da parte sperando che gli altri non avessero spiegazioni. In quel caso avrebbe vinto lui.

Secondo anziano:
“La candela che ardeva era il bambino nel ventre di sua madre, poiché sta scritto nella Gemarà che nel momento in cui il bambino si trova nel ventre della madre una candela brilla sulla sua testa e lui sa tutto”.
Terzo anziano:
“Io ricordo il momento in cui il frutto si è messo a crescere. Ricordo il momento in cui le braccia e le gambe si sono formate nel grembo di mia madre”.
Quarto anziano:
“Io ricordo il momento in cui il seme doveva essere seminato, ricordo il momento del mio stesso concepimento”.
Quinto anziano:
“La saggezza creatrice del seme rappresenta il momento in cui il mio concepimento era solo un’idea”.
Ma il sesto disse:
“Il gusto anteriore al frutto è il ricordo dell’Essere. L’odore è lo Spirito, la visione è l’Anima.

E tutti salutarono in lui l’uomo saggio che li avrebbe guidati. Ma nel mezzo dei festeggiamenti il ragazzo si avvicinò al Rabbì e gli pose due biglietti dandogli istruzioni.
Fu così che per la seconda volta il vecchio si alzò allungò le braccia e stabilì il silenzo.
Le parole che il popolo udì furono queste.

“Il ragazzo ricorda il Nulla. Ricorda ciò che fu prima dell’Essere, prima dello Spirito, prima dell’Anima. Ricorda la Vita che aleggia sulla soglia dell’Eternità”.
Nella Gemerà è scritto. Il bambino nel ventre della mamma sa tutto e una candela brilla sulla sua testa. Quando nasce passa un Angelo, lo sfiora con le sue ali e immediatamente il bambino dimentica tutto. Passerà il resto della sua vita a ricordare.
In verità il più giovane di noi è quello che ha la memoria più remota perché più vicino al momento del suo concepimento. L’essere che ha memoria più antica è il bambino in fasce. Fin tanto che la sua memoria primordiale non sarà del tutto cancellata lui non potrà parlare. Nei suoi occhi leggiamo l’Infinito”.

Poi aprì il secondo biglietto e lesse ad alta voce:
“Io, Shloyme, sarò rabbino,
i sei anziani formeranno il mio Consiglio e,
poiché il numero della saggezza è sette
Yulke, lo scemo del villaggio, sarà il Primo Ministro”.

Favoletta ispirata alla tradizione ebraica raccolta ne Ben Zimet I racconti dello Yiddishland


Col. Douglas Mortimer

giovedì 24 gennaio 2008

RECENSIONE TRAIN DE VIE FILM

L’ OMBELICO DEL MONDO

Tutto il mondo si mantiene in equilibrio su una sola città.
Tutta la città è amministrata da una sola casa.
Tutta la casa si compone di una sola camera.
Nella camera c’ è un solo uomo,
è ebreo, è klezmita, è solo

.……e ride come un pazzo…….



Train de vie - Un treno per vivere

(Train de vie)
Un film di Radu Mihaileanu.
Con Agathe De La Fontaine, Lionel Abelanski, Rufus, Clément Harari, Marie José Nat, Bruno Abraham-Kremer, Michel Muller, Johan Leysen.
Genere Commedia,
colore
103 minuti.
Produzione Francia, Belgio, Romania, Germania 1998.

Anno 1941, Europa

Uno Shtelt, piccolissimo villaggio ebraico, dell'Europa centrale -romeno- quasi autarchico, retto da un Rabbi e sotto la guida spirituale di uno Schlomo, lo scemo il pazzo-del-villaggio, una figura tipica: “lo scemo del villaggio salverà il mondo”.
Dall’altra parte; la Grande Germania, un popolo improvvisamente impazzito, alla caccia dei “pericolosissimi Nemici della nazione” e sotto la guida di un certo Hitler, il pazzo del villaggio mondiale.

Stanno ormai per giungere.
Che fare?
Il matto ha un'idea: mettere insieme il denaro sufficiente per “costruire” un treno, travestirsi da nazisti e da deportati e tentare così di passare le linee.
Tutti gli abitanti dello shtelt prendono parte alla messa in scena: si comprano carrozze e locomotiva al mercato, si elegge comandante in capo, il saggio Mordechai (Rufus), si cuciono su misura le divise degli aguzzini.
L'impresa ha inizio tra consensi e dissensi (nasce persino un'agguerrita cellula comunista).
Si beffano i nazisti, si disorientano i partigiani, ci si incontra (sul piano umano) e ci si scontra (su quello musicale) con gli zingari.
Finché si giunge in una terra di nessuno. Ed è l'occasione per vivere, nonostante tutto
Ma sarà proprio così?

Film del romeno Mihaileanu, è una tragicommedia di viaggio sotto la triplice insegna dell'umorismo yiddish (condito di una grottesca ironia critica verso gli stessi ebrei, i tedeschi, i comunisti), di una sana energia narrativa e di un ritmo di trascinante allegria cui molto contribuisce Goran Bregovic, che attinge alla musica klezmer ebraica dell'Europa orientale.
Esilaranti intermezzi comici, struggenti incontri d'amore, attimi di esistenza purtroppo destinati a essere bruciati per sempre.
Mihaileanu gira un film che mescola ironia e profonda conoscenza della cultura ebraica, perché ha una musica travolgente e una dimensione poetica, incarnata in Schlomo (L. Abelanski), lo scemo del viaggio che funge da narratore.
L'inquadratura finale può essere la chiave di lettura a ritroso.


Dialoghi italiani di Moni Ovadia.
Premio Fipresci a Venezia 1998.
Premio del pubblico al Sundance Festival
David di Donatello per il film straniero.




Uno shtelt; LA CITTA’ DI KHELM
La città di Khelm in Polonia è nota da sempre per i suoi Khelmer Narunim, gli sciocchi che si credono saggi. – In tutta la Polonia soltanto la città di Khelm era dotata di un Gran Consiglio dei Grandi Saggi formato dai sette membri più anziani, più barbuti e più saggi della comunità.
Perché avessero più peso, le loro decisioni venivano prese solo al termine di sette giorni e sette notti di intensa riflessione, quando ciascuno dei sette saggi si metteva una mano sulla fronte e con l’altra si afferrava la barba, canticchiando una canzoncina khelmita”.

LA RICONCILIAZIONE:
“La vigilia di Yom Kippur (il giorno dell’espiazione) due dei maggiori saggi di Khelm, che si erano urtati qualche tempo prima, si incontrarono all’entrata della sinagoga.
-Eh si- disse il primo saggio – sono quasi due anni che ci siamo urtati per niente. Oggi è la vigilia di Yom Kippur, approfittiamone per riconciliarci-.
-Volentieri- rispose l’altro.
I due saggi si strinsero a lungo la mano e, come vuole la tradizione per questo periodo, formularono dei voti.
- Ti auguro felicità e salute-, disse il primo saggio.
- Anch’io ti auguro tutto ciò che tu mi auguri-, disse il secondo.
Improvvisamente furioso il primo saggio esclamò: Ecco, ricominci-“.

CHI E’ IL PADRONE DI CASA:
C’era una volta a Khelm, un saggio che aveva sposato una megera. La moglie si prendeva gioco di lui tutto il santo giorno.
Una volta che alcune sue amiche erano venute a trovarla ella volle dimostrare a loro fino a che punto dominasse suo marito.
-Shemil- urlò- vai sotto al tavolo!-
Senza una parola il saggio si accucciò e scivolò sotto al tavolo.
- E ora vieni fuori!- gli ordinò sua moglie.
- No! Mille volte no! Non esco! – replicò secco il saggio. –Vedrai chi comanda qui!!!-


Da Ben Zimet: I racconti dello Hiddishland.



Col. Douglas Mortimer

RECENSIONE; IL SOLE E LO STAGNO LIBRO



IL SOLE E LO STAGNO
di Vicenzo Aiello.
Editrice Con-Fine. www.con-fine.com
Pgg. 64
Prezzo Euro 7.70
Reperibilità: Libreria L’indice di Luigi de Rosa Piano di Sorrento

Dello stesso Autore: Il nervo dell’odio per la casa editrice www.centoautori.it


Un viaggio nella provincia atipica del Sud Italia. La Penisola Sorrentina.
Tonino e Ubaldo, con lavori precari, deisderosi di contatti e di incontri stimolanti sia dal punto di vista culturale che da quello sentimentale o -più semplicemente umano- sono in continuo movimento entro il perimetro (tutto sommato angusto) della città di Sorrento e dei comuni limitrofi. Si muovono in un costante stato si insoddisfazione tra centri parrocchiali e movimenti giovanili ed ecologisti che non hanno forza né voglia di provare a fermare la continua espansione per creare posti letto nel tentativo di far entrare nella propria struttura ricettiva il famoso pullman (50 posti) ed inserirsi così nel grande giro dei tour operator esteri che propongono pacchetti tutto compreso di basso costo e adeguato livello.

In questa provincia chi non appartiene alle famiglie di albergatori o di ristoratori ha una vita che comunque gravita intorno a questi grandi attrattori economici, ma da comprimario, come Tonino che con un diploma di scuola superiore e un buon livello culturale attende di finire di consumare il meglio dei suoi trent'anni tra circoli parrocchiali, movimenti pacifisti e ecologisti (che di movimento ne fanno assai poco) già sapendo che alla fine farà il cameriere in qualche ristorante per 500 Euro al mese.

L'immagine mentale durante la lettura, è una sorta di quadrato, disegnato da Vincenzo Aiello, dentro il quale si muove l'esistenza delusa e deludente e priva di ogni futuro ma anche dell'immaginazione del futuro, della voglia di rompere, di spaccare e di crearsi un domani migliore. Dentro questo quadrato Tonino e Ubaldo consumano la loro gioventù, incontrando sempre le stesse persone, rincorrendo le medesime ragazze, pubblicando articoli, pensieri, poesie e recensioni sui giornali locali, per poi ritrovarsi il sabato sera a decidere dove andare a mangiare la solita pizza o il panino accompagnato dalle immancabili patatine fritte e piene di grasso.
I ristoranti storici e le cucine giapponesi o le Nuovelle Cuisine sono per turisti facoltosi e non per loro!

Non si sfugge al quadrato della vita di questa provincia atipica. Tutto si consuma tra le splendide piazze e i bei viali alberati dove basta alzare lo sguardo e notare il terzo piano moderno su una palzzina liberty o dove basta che arriva novembre e tutti i camerieri si trasformano in operosi-operai impegnati nella trasformazione di verande in camere doppie con aria condizionata e nella costruzione di nuove verande che diventeranno l'anno dopo camere doppie con aria condizionata.

Vite oziosamente senza futuro, quelle dei privilegiati che vivono a Sorrento anziché a Scampia ma che in comune con Secondigliano hanno la negazione di un futuro dignitoso e anche allegro, fantasioso, originale, giovane e diverso.
L'apoteosi è l'incontro alla Solara, luogo di raduno estivo di avvocati e giornalisti che sono cresciuti insieme e che hanno ormai da parlare solo del nuovo Governo quando non delle giocate al Totocalcio Totogoal, Superenalotto Tototredici.
Mi è piaciuta molto questa lettura, scivola veloce e sei alla continua ricerca di una novità che cambi la vita ai protagonisti. Già lo sai;
Qui non cambierà mai niente perchè niente deve cambiare, perchè ogni cambiamento sconvolge un ordine perfetto..

Tutto questo viene fuori nel racconto e la delusione di Tonino e Ubaldo è -forse- anche la delusione di tutti noi, abitanti di queste zone consapevoli che, una volta usciti fuori dai nostri giardini non riusciremo a trovarci e ad inventare; a portare avanti qualcosa di nuovo che probabilmente è già nelle nostre menti ma che abbiamo una enorme prudenza a comunicare, forse perchè sappiamo che, tutto sommato, è inutile

A quando la continuazione di queste due vite?
Quando un altro libro che ci dia uno spiraglio, la speranza di un futuro diverso, una nuova ricchezza che possa ragguppare le forze e i sogni così gelosamente custoditi dentro di noi?
Che cosa sarà? Una storia, un'idea, la musica, che cosa riuscirà a risvegliare questa sonnecchiosa provincia da domenica-dopo-pranzo e a mettere in moto gli animi, le energie e la fantasia di Tonino, di Ubaldo, di Francesca, di Porzio, di Marco che si sposa in Australia, di Tonino che vuole andare via, del giovane giornalista, del ragazzo che è venuto qui da poco, del Prof di lettere, dell'esperto di vini che disegna le astronavi, di Raffaele che si inventa una associazione, di Michele e la bicicletta, di Gegè con la sua Vespa, del postino, della casalinga, della signora che affitta la camera ai turisti “per conoscere gente di altri posti”, della bionda col cane, del cantante di cover di successo..

IL SOLE E LO STAGNO ci dice dove stiamo. e questo dovrebbe essere già un buon motivo per muoverci da dove stiamo...



Col. Douglas Mortimer

venerdì 11 gennaio 2008

TECNOMARIO SUPERSTAR



Mario Scapece, detto TECNOMARIO SUPERSTAR, è il tuttofare più conosciuto di Squalliano paesino dell’hinterland (già incute paura eh sto termine?) napoletano. Dategli un giravite e lui girerà il mondo! Se gli date un punto d’appoggio poi non so che vi combina. Lui è uno di quei tipi che in casa fa tutto da solo. Non ha mai chiamato un idraulico, un elettricista e nemmeno un muratore. Lui crede che le Pagine Gialle siano una serie di polizieschi edita dalla Telecom. Gli si rompe un tubo? E mica si fa prendere dal panico! Apre la sua valigetta piena di aggeggi e in quattro e quattro otto ripara tutto l’impianto idraulico del quartiere. Gli si blocca la motocicletta? Niente panico. Grasso e chiavi inglesi e sistema tutto. Per lui nessun bullone è invincibile. Nessun meccanismo ha segreti. Nessun intrico di cavi elettrici è inaccessibile.


Mario conosce l’essenza di ogni ingranaggio, di ogni scatola nera, di ogni marchingegno creato dall’uomo. Sia ben chiaro: dall’uomo. Eh sì, Mario è un bravo ragazzo ma è un tantinello maschilista. Pensa che le donne debbano occuparsi solo di ricami e merletti e non possano capire niente di meccanica e roba simile. Egli crede che ciò sia semplicemente il frutto della composizione biologica del cervello. Gli uomini avrebbero un cervello a forma di motore di F430 spider con al centro un grande basamento contornato da pistoni efficientissimi legati ad un albero motore della più alta fattura. Le donne, per contro, avrebbero un cervelletto ricamato su una tela di seta cucita su un cervello più grande costituito da una borsa Prada taroccata. Non so se ci crede davvero, ma fatto sta che quello che dice è coerente con questa descrizione. Forse tutto è originato dalla sua infanzia passata quasi interamente coi nonni. Nonno Gino, falegname, non stava più nella pelle quando seppe che gli sarebbe nato un nipote maschio dopo ben diciannove nipoti femmina. Nonno Gino portava sempre il piccolo Mario nella sua bottega piena zeppa di attrezzi di ogni sorta. Mario poteva giocare con arnesi veri, mentre tutti gli altri bambini dovevano accontentarsi dei meno divertenti aggeggi plasticosi della Mattel. Non poche volte Mario tornava a casa con un labbro sanguinante, un occhio bendato o qualche dita in meno. Tanto che la mamma era solita inventariargliele sempre al suo ritorno dal lavoro. Tuttavia, Mario si divertiva come un matto e il nonno aveva trovato una seconda giovinezza. Nonna Carmela dal canto suo aveva messo in piedi una vera e propria scuola di cucito con le sue diciannove nipoti. La più brava era Carmelina, sorella di Mario, che riusciva a cucire anche ad occhi chiusi e con le mani legate. Mario era gelosissimo della sorella che veniva apprezzata molto di più per i suoi lavoretti. Carmelina, infatti, regalava spesso alla mamma fazzoletti decorati, tovaglie ricamate e lenzuola merlettate. Mario ci provava a competere, ma i suoi aggeggi sgangherati trovavano tutti destino nei cassonetti della spazzatura.


La sua prima “invenzione” fu la macchinetta automatica per il caffè. Era un congegno composto da un recipiente in cui si versava tutto il contenuto di una scatola di caffè da 250 grammi. Dall’altra parte c’erano due bottoni con su scritto “2” e “4” che andavano premuti a seconda di quante tazzine di caffè si volessero. La macchina prelevava automaticamente la quantità giusta di caffè e di acqua contenuta in un’altra scatoletta. Il risultato fu pessimo. Veniva fuori una sciacquatura di piatti che nemmeno un inglese di Manningtree avrebbe bevuto. Il “salvanonna” non ebbe riuscita migliore. Era una specie di collare che Mario fece indossare all’ignara nonnetta. Doveva servire per avvertire i parenti più stretti in caso di malore dell’anziana donna tramite SMS. Ma, caso volle che un difetto di fabbricazione facesse vibrare il collare con tutta la nonna ogni volta che questa si alzava, si sedeva o faceva un qualsiasi movimento brusco. Ci mancò poco che la vecchietta ci restasse secca. Allora Mario decise di mettersi a studiare seriamente. Dopo aver concluso la scuola serale per perito elettronico si iscrisse ad ingegneria meccanica. Dopo qualche lustro di fatiche, che quelle di Ercole a confronto furono passeggiate di salute, e qualche milioncino speso da CEPU riuscì a laurearsi col minimo dei voti. Lui dice sempre di essere un pratico e che i libri gli servono solo a sapere quelle poche cose che da solo non riesce ad intuire. Mi sono sempre chiesto come mai con una laurea in ingegneria e quella passione smodata per il costruire, il fabbricare, l’aggeggiare, il creare, il martellare, lo svitare, lo scartavetrare ecc. ecc. sia finito per fare il pasticcere. Ma quando ho visto le sue torte mezze storte o i suoi cornetti col buco a forma di cataclisma mi sono felicitato con l’umanità per lo scampato pericolo. Comunque, Mario continua come secondo lavoro a fare il tuttofare. Sul bigliettino da visita ha scritto
"Tecnomario di Mario Scapece – Ingegnere Pasticcere – Si eseguono lavori di idraulica, elettronica, impiantistica varia, falegnameria, ferramenteria e alta pasticceria".


Quasi tutte le famiglie del paese hanno usufruito dei servizi di Mario. Ricordo che mia zia lo chiamava spesso per farsi aggiustare l’antenna della televisione. Appena non si vedeva rete4 zia Filina, ammiratrice sfegatata di Emilio Fede, telefonava a Mario pregandolo di sistemarle repentinamente la faccenda. Mario si precipitava operoso con la sua valigetta piena di chincaglierie. Una volta mi trovai a casa di zia Filina mentre Mario era all’opera. Credo che impiegò un quarto d’ora per capire che il problema della televisione era che lo schermo era esploso per ragioni ignote. Io avanzai l’ipotesi che la causa potesse essere il lancio di oggetti a cui mia zia era dedita ogni qual volta apparisse in televisione una donnina poco vestita. Comprammo un televisore nuovo alla zia e la addestrammo a usare il telecomando per ogni evenienza. A casa mia, invece, Mario combinò un disastro apocalittico con l’impianto antennario. Il televisore era leggermente disturbato e Papà decise di dare una possibilità al buon Mario. Non l’avesse mai fatto. Se n’è pentito forse più del giorno in cui chiese alla prima moglie, poi fatta a fette, di sposarlo. Mario diede un’occhiata professionale al televisore, poi disse con tono enciclopedico “ho bisogno di operare sul luogo dell’antennamento ovvero, detto in termini non tecnici, ove l’antenna si loca”. Lo accompagnai sul terrazzo. Lavorò per quasi tre ore. Sudatissimo, scese a salutarci e a riferirci che era tutto sistemato. In effetti, la televisione funzionava a meraviglia … tranne per il fatto che rai2 non si vedeva più e canale5 si vedeva solo in bianco e nero. La sera, eravamo intenti a degustare il nostro brodino serale quando bussarono alla porta. Era la vecchina della porta di fronte che ci chiedeva se da noi si vedesse rai3. Era lunedì e lei non si perdeva mai una puntata dell’inquientantissimo “Chi l’ha visto?”. Siccome da noi rai3 si vedeva una meraviglia, come in ogni casa rossa, la vecchiaccia si autoinvitò a vedere il programma. Una volta tanto andai a letto a leggere un libro. Il giorno dopo ci chiamò l’amministratore chiedendoci se il nostro televisore avesse dei problemi. Mio padre attivava inconsciamente un tono lamentoso ogni volta che parlava con l’amministratore e gli relazionò dettagliatamente su tutti i difetti anche i più minuti del nostro televisore esortandolo a prendere, finalmente, adeguati provvedimenti … perché così non si può andare avanti! L’amministratore abituato a questa frase la prese come formula di commiato e cordialmente salutò. L’indomani fu convocata una assemblea condominiale straordinaria con ordine del giorno monosillabico: tv. Ogni condomino sviscerò i difetti del proprio impianto. La situazione più disperata era quella di don Saverio che appena si sintonizzava su radio Maria gli si accendeva la televisione sui canali satellitari porno. C’era Filippo il salumiere che invece aveva le immagini ribaltate; Santina la pazza che vedeva Mike Buongiorno coi boccoli verdi; ad Annunziata la sbattezzata le si erano fissate le immagini sulla messa della domenica; Gioacchino l’imbianchino non poteva più sintonizzarsi sul suo programma preferito, quello in cui Media Shopping reclamizza i rulli per dipingere senza sporcare. Quando si scoprì che la causa di tutto era stato il lavoro di Tecnomario i condomini chiesero i danni a mio padre, oltre a non rivolgergli più la parola giacché era ormai risaputo che il signor Scapece andava combinando un sacco di guai.


Il caro Mario durante la sua carriera di ingegnere pasticcione, come dice la gente, ne ha combinate davvero di cotte e di crude. Una tra quelle “cotte” che si ricorda in paese come l’avvenimento del secolo fu realizzata durante i festeggiamenti per la festa di San Michelazzo, protettore dei camorristi nonché patrono del paese. Il comitato organizzatore dei festeggiamenti esterni affidò l’incarico all’allora neolaureato ultratrentenne di occuparsi della sistemazione dell’impianto di illuminazione. La ditta fornitrice delle luci fu contattata dallo stesso Mario tramite il suo amico elettrauto Sasà o’morsetto (così chiamato sia per l’uso frequente dello strumento da parte del ragazzo che per il suo lo scarso sviluppo verticale). Mario diresse i lavori di installazione con risultati a dir poco spettacolari. Tanto per iniziare la scritta luminosa “Festa Patronale” era difettosa. Alcune lampadine rimaste spente lasciavano leggere un “Festa a nale” che risultava di cattivo gusto e quasi sacrilego. Le altre luminarie emanavano una luce tremolante tanto che i passanti si chiedevano se le luci fossero o meno volutamente intermittenti. Ma il disastro peggiore capitò durante la processione conclusiva dei festeggiamenti quando all’improvviso le lampadine presero a scoppiare ad una ad una come in un domino elettrico. Alcuni pali che reggevano le luminarie si spezzarono cadendo sui timorati e timorosi fedeli. Le fiaccole brandite dai devoti bruciarono i pali scatenando un terribile incendio che bruciò le preziose vesti settecentesche della statua del santo e quelle del sindaco, sempre in prima fila in questi eventi. Alcuni incolparono il sindaco stesso per aver ridotto i fondi per i festeggiamenti scatenando così le ire del santo patrono-boss.


Una volta presi un passaggio in moto da Mario. Lui è un fanatico di moto. Mi fece montare e mi iniziò a spiegare dettagliatamente tutti i pregi della sua fantastica CSK-250. Motore a 4 tempi, turbo-benzina, deflagratore calibrato, serbatoio in pelle di mulo afgano, cuscinetti zincati, pistoni pistolanti. Credo che mi disse anche quanti bulloni reggessero la sua moto, i nomi di ognuno di essi e le loro beghe familiari. Scesi dalla moto un po’ rincitrullito dalla lezione di meccanica e mi accomiatai con un gesto oscillante dell’avantreno … ops del braccio. Mario non riesce proprio a capire che i suoi discorsi così tecnici non solo non possono essere seguiti da tutti ma sono anche terribilmente noiosi. A me, per esempio, ogni volta che parlo con Mario mi si scatena un mal di testa incontenibile.


E’ impossibile passeggiare con Mario per più di due minuti senza incappare in qualcosa che non gli faccia iniziare un’interminabile disquisizione tecnica. Una volta eravamo al Parco della Cicerchia. Passeggiavamo immersi nella tranquillità del verde. Mi godevo attimi di silenzio, il vocio dei bambini, il volo casuale di stormi di uccelli, una leggera brezza, i riflessi di timidi raggi di sole sulle acque placide di un laghetto artificiale. Malauguratamente qualcosa attirò la sua attenzione nel laghetto. Si trattava di un’innocente vela guidata da una ragazza in muta. Io ero intento a godermi i sinuosi ondeggiamenti della ragazza che disegnava nell’acqua percorsi immaginari che seguivo ipnotizzato. Il romanticismo di quel quadro lento si infranse ben presto sotto il peso metallico della visione tecnica delle cose che ha Mario. Egli scruta le cose e ci penetra affondo. Le scompone immaginariamente e le esamina nella loro composizione materiale. Come se fosse un meccanico marxista, elimina ogni sovrastruttura mettendo a nudo la cruda realtà dell’esistente. Mi disse che quella ragazza aveva sbagliato la partenza. Il movimento per la partenza, cosiddetto della fisarmonica, doveva essere realizzato con una repentina flessione di 45 gradi del busto seguita immediatamente da una torsione in avanti inferta con un deciso colpo di reni. La biondina aveva sbagliato di almeno 10 gradi e la sua spinta era insufficiente a raggiungere una velocità congrua. La ragazza ignara dei commenti di Mario ondeggiava soavemente mentre io non riuscivo più a perdermi nella foschia della mia immaginazione che svaniva velocemente sotto lo sguardo clinico di Tecnomario. “La vela è del tipo a triangolo. E’ composta di vetroresina, materiale molto leggero e resistente allo stesso tempo. La tavola invece è abbastanza scadente. Trattasi di una banale tavola di resina adatta per principianti, ma non di certo per eseguire movimenti più complessi”. E’ incredibile di quante cose sia appassionato Mario. Ha mille passioni ma non ne esercita nessuna perché non ha i soldi sufficienti per farlo, a suo dire.


Un giorno ci trovammo a passare davanti una vetrina che esponeva telescopi di diversa grandezza. Vidi il suo sguardo illuminarsi. Si avvicinò alla vetrina con la bramosia di un bambino mentre scarta un regalo. “Sai ho una forte passione per l’astrologia”. E te pareva. Mi venne da pensare. Ma mi fece piacere notare che aveva detto di essere appassionato di astrologia e non di telescopi. Forse questa è la sua passione per qualcosa che non sia un aggeggio, pensai. Ben presto mi dovetti ricredere. Mario attaccò una lunga trattazione sulle caratteristiche tecniche di un telescopio, tanto che mi sembrò di parlare con un libretto di istruzioni.


“Devi sapere che la fondamentale caratteristica del telescopio è una maggiore capacità di raccolta della luce rispetto alla pupilla. Il telescopio è uno strumento che permette di amplificare il potere visivo aumentando la capacità di distinguere come separati due oggetti che abbiano una piccola separazione angolare. Esistono fondamentalmente due grandi famiglie di telescopi, a seconda che siano basati sulla rifrazione o sulla riflessione della luce. Nel primo caso vengono utilizzate delle lenti e si parla di telescopi rifrattori, nell'altro si usano degli specchi. Ovviamente esistono anche combinazioni delle due tipologie fondamentali, ovvero telescopi che sfruttano contemporaneamente sia la riflessione che la rifrazione e si dicono catadiottrici, rappresentati ad esempio dagli Schmidt, o dagli Schmidt-Cassegrain. L'elemento fondamentale e caratteristico di un telescopio è il suo obiettivo, che indica la capacità di raccolta della luce e di conseguenza le prestazioni ottiche che esso può raggiungere, anche in combinazione con altri elementi ottici quali gli oculari…”


Mi illustrò in modo particolareggiato la classificazione degli oculari in diotteri, pipotteri e chesoio. Mi illuminò sui materiali con cui vengono costruiti i tubi del telescopio. Mentre parlava io restavo in silenzio. Sempre più attonito e stordito mi chiedevo come facesse a non rendersi conto che a me non importasse un fico secco di sapere come è fatto un telescopio. Semmai mi interessava sapere le emozioni che si provano ad impugnarne uno scrutando il cielo stellato. La sensazione che si prova nel guardare da vicino una stella, una costellazione. Perdersi nel buio dell’infinito. Restare catturati da una flebile lucina proveniente da chissà quale galassia eternamente lontana.
Ieri Mario mi ha telefonato. Era alquanto deluso. Si era iscritto al concorso “tecnica, design, arte e talenti vari”, bandito dalla Regione per l’incentivazione dei sempre giovani talenti nostrani. Si era, ovviamente, iscritto alla sezione tecnica presentando la sua ultima invenzione: la macchina pela-arance. Durante la dimostrazione, però, qualcosa era andato storto. La macchina si è inceppata. L’arancia è rimasta metà incastrata nella macchina mentre l’altra metà usciva penzolante formando una specie di spirale. Fu squalificato seduta stante. Fato volle, però, che gli abbiano conferito il premio per la migliore opera di arte contemporanea. Sogh!



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