martedì 18 novembre 2008

IO NON POSSO Più DIRE



Da quella sera io non posso più dire di dire sempre la verità.

Ero stato invitato alla festa nel più bel palazzo della cittadina. Il Signorecattivochepoinoneratantocattivomasolounpòbizzarro, mi aveva chiamato personalmente e io salivo, insieme ad altri convitati, il grande scalone di marmo che conduceva ai saloni dal palazzo.
Mi ritrovai in un’atmosfera di altri tempi. Ovunque valletti vestiti come paggi –scarpette di vernice nera, lunghi calzini bianchi e giacche con due file di bottoni dorati-, erano fermi con grossi candelabri in mano.
Il salone era illuminato da una lunga fila di neon chiari, nascosti all’inizio della grande volta e tante candele ardevano, dando un’atmosfera da sogno, come i fari di un tempo, quelli gialli, nel bianco avvolgente della nebbia. Tavole imbandite agli angoli e molte persone in piedi chiacchieravano tra loro mentre un’orchestra suonava, quasi per sé stessa, dimenticata da tutti.

Io ero stato scolpito direttamente dal marmo. Ero perfetto come una creatura immaginaria alla quale lo scultore aveva dato vita soffiando sulla materia. Avevo lunghi capelli scuri che cadevano sulle spalle , mantenuti da un nastro di velluto nero, che formavano una lunga coda. Alcuni ricci liberi dal vincolo, pendevano sulle orecchie e scivolavano sulle tempie.
Avevo un pantalone di grisaglia grigio e una camicia azzurra a righe bianche che cadeva alla perfezione sul fisico statuario.
Ma, da quella sera, io non posso più dire di dire sempre la verità.

Al centro della sala, una ragazza sola mi fissava e, sembrava mi aspettasse. Era magra, castana e giovane; alta. Vestiva di veli. Mi parve che ne avesse diversi che scendevano liberi però appoggiandosi sul suo corpo e disegnandone così le forme piene ma non abbondanti.
Il velo superiore lasciava immaginarne altri ed era di un colore blu scuro. Una fascia di raso blu notte le cingeva la vita, cadendo su un solo fianco e spezzando quel corpo all’altezza della vita.
Anche lei aveva i capelli di un colore bruno che portava lunghi e legati in una coda di cavallo da un nastro di velluto rosso. Al contrario dei miei i suoi erano lisci.
Poche persone potevano dire di averne sentito la voce giacchè non parlava quasi mai. Ma quei pochi raccontavano che fosse come un vento di libeccio; leggera e calda, con qualche tono alto come di campanelli o di vetri che si toccano quando si fa un brindisi e mai sopra tono.
Ma, neanche loro, dopo essere stati in quella casa, possono più dire di dire sempre la verità.

Allungai la mia mano sinistra verso la sua destra, che lei prese. L’altra cercò la sua sinistra. Ci ritrovammo, pertanto uniti da una croce formata dalle nostre braccia tese. Di colpo aprii le braccia, lei girò e si ritrovò con tutto il peso del suo corpo aderente al mio, di spalle. Dalla punta dei suoi piedi alla sua testa tutto era completamente appoggiato a me.
Lei pose la punta delle sue scarpette di vernice nera, sulla punta dei miei piedi, mentre i tacchi sottilissimi e lunghi cadevano all’interno dei miei talloni. Era più bassa quindi poggiò la testa sulla mia spalla sinistra. Prima però fece cedere la coda del suo cavallo in avanti, abbassando la tesa e la fece scivolare dietro le mie spalle con uno scatto deciso all’indietro. Poggiai il mento sulla sua spalla destra e ne percepivo il profumo intenso e dolciastro che mi inebriava come una droga.
Chi ci avesse visto da dietro poteva avere l’immagine di due code di capelli che scendevano parallele mantenute da due nastrini di velluto, rosso e nero che danzavano tra loro.
Prendemmo a dondolarci lateralmente seguendo il tempo della musica che suonava quasi solo per noi. Poi lei iniziò una strana danza. Si spinse in avanti poggiando il suo peso sulle punte dei miei piedi fino quasi a perdere l’equilibrio; io la mantenevo abbracciata e tenendo le mie mani aperte sulle sue aperte all’altezza delle costole. Poi tornava indietro, poggiando con i tacchi sul pavimento e sicura di essere mantenuta. In quel movimento il suo corpo tutto poggiava su di me e io ne percepivo le morbidezze e le sfumature.

Nessuno ci notava ma io guardavo i presenti e non mi sembravano rilassati.
Il Signorecattivochepoinoneratantocattivomasolounpòbizzarro, padre della ragazza, aveva l’usanza di fare feste. Però poi, ognuno per potersene andare liberamente doveva dire qualcosa che contenesse la verità e una bugia. Una sola.
Il padrone di casa aveva nel cortile una grossa pentolona alta circa un metro e ottanta, con dell’acqua e grossi ceppi sotto. Agli angoli quattro servi vestiti come gli schiavi di un harem –pantaloni dorati larghissimi e a righe, scarpette a mezzaluna e torso nudo-, alimentavano costantemente quattro fuochi. Chiunque non dicesse una sola bugia tra le sue verità veniva spinto dentro la pentola da un forcone rovente e lasciato bollire vivo.
Per questo motivo, nessuno che era stato ad una di quelle feste poteva più dire di dire sempre la verità.

Ci sciogliemmo e mantenendoci per mano ci incamminammo per un lungo corridoio. Io le tenevo con la mia destra la sua destra, passandole un braccio sul davanti, in modo che il suo incedere fosse protetto da una sorta di barriera, lei mi manteneva la sinistra con la sua sinistra, passando il braccio dietro di me da sospingermi a indicarmi la strada.
Incontrammo molti signori che gravano per le sale del palazzo e tantissimi servi che recavano sulle mani aperte vassoi argentati con creme e gelatine turgide ed appena tremolanti.

Avevano un incedere automatico. Lo sguardo fisso sulla direzione da percorrere. Ad un suo cenno muto, loro volgevano la fissità dello sguardo verso l’incavo dei seni di lei, senza goderne, mi pareva, la visione. Lei infilava il dito nella gelatina poi se lo leccava. Rimaneva un po’ di crema così mi apriva le labbra e me ne sporcava i denti affinché io, con la lingua ne godessi il gusto freddo e appiccicoso.
Mi condusse in una della ultime camere da letto. Quella dei genitori.
La camera era singolare. Tonda senza mobili ma con tantissimi drappi alle pareti e molte candele. Un giro di neon disegnava il perimetro della camera proprio nel punto dove si chiude a volta.
Il colore bianco nebbia si spandeva nel blu delle pareti creando lo stesso effetto del salone ma azzurro scuro.
Per un prodigio di architettura, proprio nel punto di unione che tiene in piedi la volta, questa era interrotta e aperta. Una torretta la sormontava. Era costruita a colonne e un tettuccio tondo di tegole la chiudeva. Dalle colonne si vedeva la notte.
Al centro della camera, sotto la torretta, un grande letto nero, tondo, spoglio. Al centro del letto una di quelle lampade che un tempo si vedevano sulle scrivanie degli studi importanti e che adesso sono di gran moda.
Di ottone, con la campana verde. Ma questa era di ottone bianco, con la campana bianca e la lampadina bianca. Ciònondimeno, la luce che emetteva era blu. Io rimasi incantato e continuavo a chiedermi come mai.
Lei mi fece stendere supino, mi aprì i piedi ai lati della lampada e le mani con le palme rivolte verso la notte. Prima di stendersi su di me, fece cadere la lunga coda dei miei capelli verso il pavimento.

Lei si stese su di me nella medesima posizione. Era più piccola quindi i suoi piedi finivano sulle mie caviglie, le sue mani sui miei polsi e la sua testa premeva sotto il mio mento. La coda del suo cavallo scese a cercare la mia. I nastrini, questa volta non danzarono.

La sua voce era come il vento caldo e leggero del libeccio quando, per la prima volta parlò. Leggerissima e vellutata. Rossa come il suo nastrino rosso.
“Gira!” e il letto cominciò a girare.
“Da questa torre si vede la luna e, siccome la luna cambia posto ogni notte, mio padre comanda al letto di girare fino a quando non vede la luna. Allora lui e mia mamma si addormentano illuminati dal raggio bianco e si svegliano quando l’azzurro ha sostituito il blu.
La luna cambia posizione trecentosessantasei giorni all’anno mio padre la può inseguire sempre tranne uno”.
E questa è la verità. Ma, da quella sera, io non posso più dire di dire sempre la verità.

“Oggi”.
Infatti la luna quella notte non si vedeva, perché cadeva proprio sulle tegole della torretta.
“Oggi di ogni anno, mio padre diventa un lupo mannaro e dà una grande festa”.
“Fermati!!” E il letto si fermò.

La ragazza si alzò. Dapprima cominciai ad avvertire il peso del suo corpo sempre più leggero su di me, poi lei si sollevò da me, lievitando verso la torretta.
Si alzò come quei prodigi dei maghi televisivi che tu sai che c’è il trucco e che ti fotte sempre perché non lo scopri mai (come il settimo particolare della settimana enigmistica).
Si sollevò mentre i suoi veli gravitavano verso di me. Quando la coda del suo cavallo giunse a spazzarmi la faccia, si pose a sedere nell’aria, si girò e toccò terra. La sua mano destra prese la mia sinistra e mi alzai.

Il lume bianco con la campana bianca e la lampadina bianca continuava ad emettere luce blu.
Aprì una porta e io la seguii dentro una stanza. Anche questa aveva le pareti di un blu scuro, quasi nero. Era disordinatissima. Aveva un letto sfatto. Al lato un mangiadischi arancione, un 45 giri e un’ abat-jour con una lampadina bianca. Sul letto un velo blu.
Di fronte, un tavolino per il trucco e uno specchio dorato stile roccocò e altissimo. Lei sedete allo sgabello –stesso stile- e io mi iniziai spogliare. Sembravo uno dei Centocelledreammennightmaremammaròcarmenenunc’àfaccioproriouanemeddio.
Bellissimo e perfetto. Mi muovevo nella danza come quelli del Lido 21 che ogni sera si spogliano e le signore che hanno pagato il biglietto gli mettono cinquanta o cento euro negli slip che lui poi porta in banca per pagarsi le rate della macchina nuova. La camicia azzurra si sbottonava lentamente mentre il bacino ondeggiava e lei batteva i palmi della manine mantenendo le dita aperte e separate, come una bambina che ha ricevuto un pacco, ma di enormi dimensioni, rosso col nastro blu e qualcuno lo sta scartando per lei.
Ma, da quella sera, io non posso più dire di dire sempre la verità.
Rideva forte e batteva le manine.


Rimasi a petto nudo e stavo slacciando la cintura dei pantaloni quando mi fermò e mi disse di andarmi a sedere al capo del letto cosa che feci.
Mi misi seduto con i piedi sul letto, le ginocchia alzate, le mani che le circondavano e il mento poggiato sulle ginocchia. Mi mangiavo nervoso le dita e ululavo.
Prima avevo messo su il disco e il velo blu sulla lampada. Il disco suonava:
ABAT-JOUR
CHE DIFFONDI LA LUCE BLU
DI LASSù

Mentre lei gesticolando pochissimo fece cadere il velo blu della notte dalla sua vita. Il corpo rimase libero da vincoli e, a me parve ancora più in evidenza, adesso che il velo blu cobalto cadeva liscio.
In una zona del collo erano celati dei ganci. Lei ne sciolse uno. Il velo cadde e ne rimase uno azzurro scuro. Le linee dei seni e delle anche si mostrarono appena celate. Poi cadde l’altro e rimase solo quello celeste che ne copriva uno bianco. L’ultimo. Dal mio punto di vista cominciavo a percepire l’aureola dei seni che vibravano appena, bianchi come la gelatina del valletto di prima, e la forma bruna al centro delle sue gambe. Ululavo e mi mangiavo le unghie.
- Porta la mano al gancetto dietro il collo, mi guarda, soffia il suo vento lieve e caldo verso la frangetta che si alza appena. Tira indietro la testa inarcando davanti il corpo e offrendosi maggiormente. Il velo sta per cadere.

SI APRE LA PORTA.
- Entra il Signorecattivochepoinoneratantocattivomasolounpòbizzarro, seguito dalla moglie pallidissima (le aveva detto che alla sua prima verità sarebbe stata cotta viva nel pentolone).
- La ragazza si riprende e fugge verso una poltrona. Si siede rapida e si rannicchia tirando su i piedi abbracciandosi le gambe, in attesa delle prime sferzate. La testa nascosta

La voce del Signorecattivochepoinoneratantocattivomasolounpòbizzarro, fu molto cortese quando, rivolto a me mi pregò di seguirlo.
Solo le sopracciglie apparvero sopra le gambe di lei. Poi alzò due occhi castani che andarono a posizionarsi ciascuno sopra un ginocchio.
Ad un suo cenno lei si alzò e si incamminò mesta per il corridoio. Ma era cambiata. Si era trasformata in una cameriera addetta alla cenere. Aveva un dimesso abitino nero, reso lucido dall’uso. Sottili capelli castani mantenuti da un elastico, formavano una coda. Le braccia tese in avanti e, sulle mani, una paletta d’argento con lo scopino della cenere. Il suo sguardo aveva una fissità a me già familiare, e guardava in direzione del suo percorso.

- Lui mi chiede di seguirlo. Io lo faccio. Arrivo a centro della salone. Gli invitati sono tutti intorno a me. Ciascuno ha una forbice, qualcuno un rasoio.
Mi dice: “Dimmi quello che avete fatto, ma tutta la verità, tranne una sola bugia. Attenzione, ho già dato ordine ai miei lacchè di accendere i ceppi”.
Ma me lo dice con cortesia.
Io ho un po’ paura ma eseguo. Ecco quello che dico.

“Sono entrato, ho trovato una dea.
Vado della dea, la cingo e la attiro a me. Ci dondoliamo inventando una danza.
LEI mi conduce per un corridoio. Incontriamo un valletto che reca su un vassoio creme e gelatine.
LEI lo ferma ne assaggia un po’ poi lo fa provare a me.
LEI mi introduce in una camera da letto. La camera è tonda, blu, una sola lampada bianca, con la campana bianca e la lampadina bianca emette luce blu.
Io mi stupisco di questo.
LEI mi stende sul letto e si stende su di me.
LEI ordina al letto di girare e cerchiamo la Luna, ma non la troviamo e così ci alziamo e entriamo in una camera molto disordinata e scura, pare blu”.

Mi manca la saliva. Inghiotto e poi riprendo.

“Mi spoglio come uno dei
Centocelledreammennightmaremmamamròcarmenenunc’àfaccioproprioquant’èbelloccesùparefint
LEI batte le mani e ride forte, poi mi dice di sedermi sul letto.
Io eseguo, ma prima faccio una cosa.
Metto un disco nel mangianastri e la musica suona. Abat-jour che diffondi la luce blu…,
Mi siedo sul letto come Marcello Mastroianni mentre lei si spoglia che mi pare la Loren…”


Mentre parlo ognuno degli invitati mi passa dietro e con la forbice mi taglia i capelli. Prima la coda, poi il nastro, poi i capelli. Alla fine col rasoio me li radono fino ad avere la testa completamente calva.
Ed è per questo che ancora oggi io sono, sì bellissimo come una scultura a cui l’artista ha dato vita soffiandoci sopra, ma senza più neanche un capello.



Questa storia che ho raccontato contiene una bugia che gli invitati hanno rivelato al
Signorecattivochepoinoneratantocattivomasolounpòbizzarro
come gli errori della settimana enigmistica, ma badando bene di non dire la verità.

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Quale?
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Ma è ovvio.
Nessun lume con la campana bianca e la lampadina bianca può ragionevolmente emettere una luce blu, no?

Mi sveglio.






Col. Douglas Mortimer

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