giovedì 8 febbraio 2007

UFUS DEI


UFUS DEI


Anìma è una ragazza di diciotto anni, carina come tutte le sue coetanee e, in quel periodo piena di apprensioni e di timori ma anche di tanta ansia per l’esame di maturità che sta alle porte e per la sua nuova vita da donna che l’aspetta, una volta che la scuola sarà un’esperienza finita.

Tra un po’ non avrà più orari e compiti da assolvere ma dovrà stabilire lei stessa i tempi della sua giornata e le priorità volta per volta della sua vita.
Questo la spaventa e l’ affascina, come accade a tutte le sue compagne.

Quel pomeriggio di fine anno scolastico del 2006 era talmente inquieta e non sapeva darsene una spiegazione. Sentiva nell’aria qualcosa di differente che stava per colpirla, percepiva l’imminenza di un forte investimento emotivo. È solo che era stata invitata in un centro studi femminile e, come per tutte le cose di cui non sa niente si sentiva un po’ curiosa un po’ timorosa.

Arriva all’indirizzo, una bella villa stile ‘900 nel più elegante e quieto quartiere residenziale della sua città, una metropoli industriale del Nord, bussa al campanello.
Il senso di inquietudine comincia a diventare visibile all’apparire della ragazza che le apre la porta.
E’ un poco più grande di lei e indossa abiti fuori moda e poco femminili. Avrebbe potuto essere bella se ogni traccia di bellezza non fosse stata cancellata con sapienza da quel corpo.

Forse poteva pure essere simpatica, ma in quel momento la ragazza apparve ad Anìma soltanto molto cortese e ospitale. Le disse di essere attesa dalla sua amica per preparare insieme l’ultima interrogazione e lei la scortò per scale e corridoi, puliti e ordinatissimi. Anìma fu avvolta in un’atmosfera di silenzio senza emozioni e senza tempo; le pareva di camminare in un film muto, dove gli stessi loro passi non producevano suono. Le parole di cortesia della ragazza che la guidava le giungevano lontane e quasi incomprensibili.
La sala studio era grande, quadrata con pareti interamente rivestite da librerie e scaffali e con numerosi tavoli centrali dalle luci basse. A questi sedevano ragazze giovanissime sole, silenziose, con un libro un quaderno e la matita per segnare appunti e con il loro santino che le aiutava nello studio.
La sua amica le fece un cenno allegro con il braccio e Anìma la raggiunse. La salutò con calore, sollevata all’idea di incontrarla e parlarle delle cose accadute a scuola e poi delle sensazioni avute in quella residenza, ma la ragazza la zittì con un gesto, mostrandole le altre e dicendole che non dovevano disturbare il loro impegno. Quindi fece in modo che lei si accomodasse e riprese il suo compito, solitaria e silenziosa.
Anìma piombò nel disagio. I suoi diciotto anni esigevano un movimento continuo, uno stimolo costante della sua mente in evoluzione che si sfogava nel parlare, pensare, progettare cose e farle e poi pentirsene quindi riprovare ancora. Era costantemente innamorata di qualcuno e questo qualcuno cambiava quasi quotidianamente e aveva un’ emergenza quasi fisica di dirlo, di raccontare alla sua amica la frenesia che provava quando incontrava quel tal ragazzo o quell’altro. Inoltre c’erano un mare di stimoli intellettuali che provenivano dai corsi che frequentava, dalla sua comitiva dallo scontro col mondo dei grandi dai suoi ideali, costantemente in fermento, dall’immagine che aveva di sé che cambiava a seconda dell’abito che indossava.
E tutto questo doveva uscire fuori in un modo molto semplice. Parlando, nel suo modo frenetico e velocissimo e intimo, con la sua migliore amica, tanto più calma di lei, racontandole tutto….
Ma fu costretta al silenzio già dal primo incontro. Quindi con una tempesta nel cuore e la matita sospesa cominciò a guardarsi intorno.

Non potendo più parlare iniziò a osservare e fantasticare.
Le creature in quella sala erano della sua età ma tutte straordinariamente quiete, assorte in un’attività che lei detestava; passare le ore avanti ad un tavolo con un libro da far entrare nella memoria.
Iniziò ad immaginarsi in un’astronave dove persone aliene l’avevano invitata per catturarla, le guardò. Avevano sembianze femminili ma nella loro bellezza c’era qualcosa di fermo, era l’assenza del movimento quindi del fascino, della seduzione della femminilità che dava a quella bellezza qualcosa di inquietante, di freddo. Sembravano dei Ròbt, creature simili a persone con corpi senza respiro e senza sangue. Fissò una per una quelle ragazze e osservò come facessero di tutto per minimizzare le diversità rendendosi omogenee e fedeli ad un ideale unico di bellezza che si rispecchiava poi nella camera; accogliente e calda ma insolitamente ferma priva di rumore e di spontaneità.
I Ròbot si mantenevano seduti senza poggiare la schiena in una posizione molto scomoda e tenevano gli occhi bassi sui loro libri senza volgere lo sguardo gli uni verso gli altri, ma non sembravano immersi in un loro mondo interiore, piuttosto apparivano fuori di mondo, in una dimensione del fare piuttosto che dell’essere. Anìma non riusciva a capire e questo non l’aiutava ad alimentare le sue fantasie. Quindi aumentò la concentrazione e diresse la sua osservazione su una sola di quelle creature.
Forse in questo modo sarebbe stato più facile…
La creatura era silenziosa e ferma, i suoi occhi registravano una serie impressionante di dati che traeva dalla lettura, la mano andava automaticamente al quaderno degli appunti dove ella segnava informazioni che le sarebbero poi servite. Non aveva niente di personale o di intimo quello studio, pareva piuttosto una forma di foraggiamento, una fase di imput del suo cervello.
Non c’era allegria né curiosità, ma tantissimo impegno e la creatura sembrava consapevole che una diminuzione della sua energia in quella fase l’avrebbe condotta a gravi punizioni o a forti rimorsi.

Le se insinuò nel cervello l’ultimo CD che aveva ascoltato. Era musica sperimentale, studio sui suoni e ricerca di un’armonia che li riesca a rendere musicali, e si apriva in improvvise e antiche melodie mediorientali. Ad un angolo vide uno stereo e lei si sentì lievitare sulla sedia per la pressione della posizione seduta.
Salì nell’aria al centro della stanza e volò invisibile verso l’HIFI per mettere il dischetto e quindi si produsse in una danza sfrenata seguendo l’onda ritmica dei suoni e spogliandosi progressivamente. Mentre l’attenzione delle sua compagne di studi si diresse verso di lei, la musica cambiò rimandando ad atmosfere fiabesche da Mille e una Notte e Anìma iniziò a muoversi lentamente partendo da un ondeggiamento del bacino e a spogliarsi portandosi un velo sugli occhi e sulla bocca mentre tutto il resto del suo corpo rimaneva progressivamente nudo. Le ragazze sollevarono lo sguardo dalle loro letture, unico loro movimento, rimanendo incerte ma nessuna si mosse dalla sua posizione e l’atmosfera della camera mantenne la sua integrità.
Nel momento in cui cadeva l’ultimo velo la porta si aprì ed allo sguardo di Anìma, seduta sulla sedia accanto alla sua amica, apparvero alcune ragazze coetanee delle studentesse-Ròbot, ma vestite come delle cameriere delle case borghesi di inizio secolo.
Recavano dei vassoi con le merende, si muovevano timorose e lente e avevano lo sguardo basso. Con molta deferenza porgevano le merendine alle ragazze, dando loro del Lei e chiamandole Signorina, mentre le ragazze le guardavano dritte negli occhi con sguardi impersonali e le ringraziavano dando il Lei e chiamandole per nome.
Questo fece molto male ad Anìma al punto che quando la domestica fu da lei rifiutò la colazione, gesto che mise su tutte le furie la sua amica, che mostrò il suo disaccordo con un semplice aggrottamento di ciglia.
Le tre domestiche attesero affiancate in un angolo che la merenda fosse da tutte consumata, poi riordinarono e sparirono portandosi dietro la mancanza assoluta di rumore che le aveva accompagnate.
Nella stanza si ridisegnò il fermo immagine senza pulsazioni di un normale pomeriggio di studi in un residenza femminile.

La porta si aprì nuovamente ed entrò una donna piacente sulla quarantina vestita come una direttrice didattica e coi capelli raccolti. Si avvicinò ad Anìma e le chiese di seguirla che le avrebbe fatto visitare la residenza. Glielo disse a voce talmente bassa che neanche la sua amica potè sentirla, per non disturbare, disse lei, ma ad Anìma sembrò quasi un segreto. La cosa non sembrò turbare i Robòt ed alla studentessa parve capire che ognuna custodisse dentro sé il privilegio di condividere uno speciale segreto con quella direttrice.

Uscirono da quella stanza proprio mentre lei sentiva che tra un po’ sarebbe soffocata.
Ogni tanto, nei corridoi incontravano una Ordinaria (così seppe si chiamavano i Robòt) che si faceva meccanicamente prossima al muro al loro passaggio, ed arrivarono dove la direttrice le disse era il Padrone di Casa. Una vera a propria Cappella, con tanto di panche e crocifisso e confessionale. Rimasero lì per un po’ -pensando la direttrice di fare cosa gradita alla sua ospite-, mentre Anìma restò con gli occhi chiusi per tutto il tempo sperando che fosse breve. Ogni tanto una ragazza si affacciava nella sala , si inginocchiava, trattenendosi per un po’, quindi andava via. Anìma teneva gli occhi ben serrati e nella mente il solo ticchettio dell’orologio come un Mantra.

Nella sua mente si produsse un’altra immagine automatica.
Vedeva tutti i dettagli della stanza, sebbene con gli occhi serrati e al centro un enorme quadrante bianco di orologio moderno a pile con la batteria scarica.
La lancetta dei secondi andava avanti di un minuto
Indietro di un minuto TAC
Avanti di un minuto TIC
Indietro di un anno TAC
Avanti di un anno TIC
Mangiandsi una vita TAC
Mangiandosi una vita TIC
Indiretro di un minuto TAC
Avanti di un minuto TIC
TAC TIC TAC Tic Tac
Si sentì chiamare per nome ed uscì da quell’incubo.

La direttrice l’accompagnò infine alle lavanderie.
“Qui disse - e la sua voce era bella e molto elegante, senza influenze dialettali - vivono e lavorano le domestiche che tu hai conosciuto. Sono ragazze provenienti da un ceto sociale inferiore, figlie di operai e braccianti, di impiegati e piccoli commercianti. Il nostro Istituto caritatevolmente le accoglie e dà loro da vivere, un tetto e un lavoro, ma non l’istruzione, quella è riservata alle signorine-di-casta, provenienti da famiglie per bene, tu certo comprenderai, è già tanto” le disse complice.
Amìna, chiese “Ma come non possono studiare, non possono avere ambizioni, non ci sarà mai un futuro per loro al di fuori della sala da stiro? E se una di queste fosse portata ad una materia? Le lasciate vivere come animali domestici e poi perchè danno il Lei alle loro coetanee e le chiamano Signorina? E “
“Cara ragazzina, queste donne già sono tanto fortunate a vivere nella residenza più elitaria della Nazione, e poi qui non sta bene e non è di moda fare domande!!!”.

Entrarono nella stireria. Altri Ròbot senza respiro, senza pensieri e con l’anima parcheggiata in Stand-By si mantenevano dritti e seri avanti ai loro tavoli stirando camicie maschili.
Creature femminili destinate al Paradiso di serie B.
Differentemente dalle studentesse, queste sembravano profondamente turbate dalla presenza della direttrice e in stato di forte soggezione. L‘immagine che arrivò ad Anìma fu ancora più raggelante e intollerabile; Le ragazze non avevano più niente di umano che potesse venire fuori dai loro sguardi. Solo la soggezione e il timore di sbagliare, un impegno indescrivibilmente forte per fare una cosa da niente come stirare una camicia e il respiro che si percepiva appena. Erano pallidissime, magre silenziose e completamente ferme.
Una Ordinaria seduta su una sedia leggeva loro dei passi da un Libro Sacro, facendo in modo che il senso della lettura arrivasse a quelle menti elementari.
Una di loro alzò lo sguardo su Anìma. Aveva la sua età e degli enormi occhi azzurri. Anìma pensò che se fosse stata compagna di scuola le avrebbe dato grossi grattacapi coi maschi.
Era bellissima.

Questo era troppo! Le nuvole nere che si erano addensate sui cieli della sua anima già da prima di arrivare a quella residenza si ruppero in un lampo e cominciò a piovere un pianto pesante dentro al suo cuore.
Con grosse lacrime che venivano fuori da quel pianto interiore Anìma fuggì via da quella stanza e da quei corridoi. Un grido acuto e monotòno le uscì direttamente dal centro dei suoi pensieri.
E gridava una sola vocale correndo per le camere e i saloni e cercando la via di fuga. Entrava in una sala e metteva disordine con la sua presenza, la sua corsa e il suo grido. Usciva e si ristabiliva il silenzio e il tempo senza tempo dell’orologio con la pila scarica. TIC TAC.
Correva a più non posso, facendo fuggire via da lei la sala studio, le ragazze Ròbot, l’oratorio, la bellissima domestica privata della vita, il ragazzo nuovo che le piaceva adesso, la musica sperimentale, quei suoi enormi occhi blù, il conflitto coi genitori, la lite per lei fuori alla discoteca, la ragazza che leggeva e registrava, l’ordinaria che si faceva vicino al muro al passaggio della direttrice, la direttrice, la sua voce, il corteo degli studenti solidali con gli operai, la canna che passava di mano in mano, la carezza di sua madre. L’amica del cuore e il suo gesto per renderla silenziosa, la ragazza che sembrava una vecchia alla porta, le tre domestiche che dicevano Signorina, il motorino usato che voleva suo padre le regalasse, la musica araba e la danza del ventre, la Ordinaria che leggeva alle strane creature addomesticate in stireria, la genuflessione e il TIC che rubava la vita di quelle ragazze a cui avevano fermato i battiti…
…Quel dolore che non ha più lacrime e nemmeno più la dignità e la coscienza di esserlo.

Giunse per strada colta da una forte crisi di panico. Fermava i passanti chiedendo loro un aiuto, ma loro, gente dei quartieri alti, la scansavano e la prendevano per una drogata che chiedeva qualche centesimo.
Allora fece l’unica cosa che si fa quando piove pesante. Si mise a correre verso il solo riparo possibile, cercando di sfuggire alle gocce nere e pesanti che cadevano dal cielo cupo della sua anima direttamente sul suo cuore.

Al Pronto Soccorso le diedero dei sedativi e la ricoverarono per una notte per tenerla sotto controllo.
Quando si svegliò Anìma era distesa su un lettino di ospedale, la sua mamma le teneva la mano e le carezzava dolcemente la fronte sorridendole.


C’è un cono di luce nei loro occhi, che se si posano su una persona o una cosa
La illumina.
E’ la vita,
Che quando è ferma
E’ ancora più frenetica,
intensa.




Col. doulgas Mortimer

1 commento:

UFOrobó ha detto...

"Ròbot"???
*BLEARGH*!!!